Corriere della Sera, 21 luglio 2017
Si toglie la vita Bennington, voce rock dei Linkin Park
Un giorno non come un altro. Chester Bennington, voce e leader dei Linkin Park, ha scelto di uccidersi proprio nel giorno in cui avrebbe compiuto gli anni il suo grande amico rock Chris Cornell, morto suicida anche lui a maggio scorso. Bennington si è impiccato ieri nella sua abitazione di Palos Verdes Estates, nella contea di Los Angeles. Proprio come aveva fatto il suo grande amico Chris.
Il leader dei Linkin Park ha deciso di andarsene a soli 41 anni, dopo una vita segnata dai trionfi discografici, da 60 milioni di dischi venduti, le folle oceaniche ai concerti, ma anche tante droghe e troppo alcol che spesso prendevano la forma della depressione.
Bennington era sposato e aveva sei figli da due donne diverse (la seconda, Talinda Bentley, una modella di Playboy ). Il suo corpo è stato trovato ieri prima delle 9 del mattino californiane, le 18 in Italia. Era in casa da solo, la famiglia era fuori città.
Origini inglesi, olandesi e gallesi, figlio di un poliziotto e di un’infermiera. Infanzia difficile, genitori presto separati, la dipendenza dalle droghe pesanti già da minorenne. Il primo figlio a 20 anni, quando era ancora un commesso di Burger King qualunque e non il leader di una band che ha provato a riscrivere le regole del Nu Metal. Il corpo come un tappeto di tatuaggi. La voce dura, graffiante, ma le melodie sempre a cercare un equilibrio più morbido. Rimbalzando in modo perfettamente complementare la controparte rap dell’altra voce della band Mike Shinoda, il primo ieri a confermare con un sofferto tweet la notizia del suicidio.
A scavare nel passato più cupo di Bennington si scoprono indizi che riletti oggi fanno capire come la sua vita stesse neanche troppo lentamente precipitando. In passato aveva raccontato di avere già pensato al suicidio perché da bambino era stato abusato da una persona più grande di lui. Non aveva neanche dieci anni ma decise di non denunciare mai il suo aggressore adolescente quando scoprì che era a sua volta una vittima. «Ha distrutto la mia autostima: non riuscivo a parlarne, non volevo che la gente pensasse che fosse tutto falso» disse in un’intervista, come a voler vuotare per l’ennesima volta il sacco della sua coscienza tormentata.
Ma Bennington se ne va anche in un momento in cui la sua band era tornata a splendere ovunque nel mondo. Basti pensare che al loro ultimo show italiano, all’I-Days a Monza il 17 giugno, in molti avevano notato come le loro 80 mila persone avevano persino superato il pubblico dei Radiohead, le star più attese. Solo poche ore prima che le agenzie americane dessero l’annuncio della sua morte, i Linkin Park dal profilo Twitter della band avevano postato il loro nuovo video, «Talking To Myself», tratto dell’ultimo album «One More Light». Il disco in cui la band aveva svelato il suo lato più intimo, cantando storie di padri di famiglia e non più solo quelle da rocker maledetti.
Resta la tragica coincidenza della morte nel giorno in cui era nato Cornell, stella del grunge, che ieri avrebbe compiuto 53 anni. A lui aveva dedicato una lunga lettera d’addio: «Mi hai ispirato in modi che nemmeno puoi immaginare. Il tuo talento era puro, la tua voce gioia e dolore insieme» scrisse. Poi si era esibito al funerale. Cantò «Hallelujah» di Leonard Cohen. Sono passati solo due mesi.