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 2017  luglio 21 Venerdì calendario

Calabria, l’oro del Pollino. Il parco degli alberi giganti

Ci sono giorni in cui si può vedere Apollo insieme ad Etna. Per coglierlo sul fatto bisogna nascondersi all’alba, tra i tronchi contorti dei pini loricati, in quel giardino degli dei che è il tabernacolo del parco nazionale del Pollino, crocevia di Basilicata e Calabria che lì sono tutt’uno. Le tre ore di ascensione verso i duemila metri richiedono tenacia, non particolari abilità. E se quel giorno le nuvole vogliono concederlo, dalla cima dedicata al dio del sole si può osservare a occhio nudo il vulcano siciliano, centinaia di chilometri distante, ben oltre lo stretto di Messina.
Nel Parco non c’è traffico, non ci sono code, in certi posti non c’è linea telefonica. Ma c’è oro, c’è oro dappertutto. È racchiuso in una cassaforte naturale stretta tra lo Jonio e il Tirreno, che appaiono alla vista contemporaneamente in vari punti. È un patrimonio ambientale senza eguali, che per varietà botaniche e conformazione geologica l’Unesco ha riconosciuto «d’interesse mondiale».
Ci sono tesori d’arte che gli uomini non hanno corrotto, perché la gente del luogo ha protetto ciò che altri hanno dimenticato. Il Pollino è ricco di vita e di cultura, sebbene in pochi conoscano davvero questa terra.
Tra miti e santi, credenze pagane e fede religiosa, Oriente e Occidente, ortodossi e cattolici, papas e preti, icone bizantine e altari con Madonne, basta non avere fretta e si accede a ogni scrigno. Nella cittadina normanna di San Marco Argentano, per esempio, ai piedi del parco, arrivati davanti a un anonimo cancello si deve avere la pazienza di citofonare, confidando che la padrona di casa non sia indaffarata «cu i buttigghi», le bottiglie per le conserve. L’attesa sarà premiata. Oltre l’inferriata appare un portone romanico e appresso un’altra porta, più antica. È in quel momento che si viene investiti dalla storia, perché di lì si accede a un’abbazia cistercense, frammento di un monastero benedettino del 1065, dove tre anni dopo entrò e s’inginocchiò papa Urbano II. Nel silenzio della sala capitolare – sotto le volte a crociera intatte – la suggestione fa sentire ancora oggi la voce del Pontefice, che prega per Gerusalemme, per il Santo Sepolcro, per la riunificazione delle Chiese. E medita la decisione con cui si consegnerà ai posteri come il Papa della prima Crociata.
Ci sono molte cattedrali nei centottanta mila ettari di Parco, sono gli alberi monumentali che neppure in quattro si riesce ad abbracciare. A Grisolia un castagno plurisecolare vanta sedici metri di diametro, ma non vanta il record. Ogni pianta qui ha una storia e dunque un nome: a Vigianello c’è il faggio delle Sette sorelle, a Laino Borgo la quercia dei Coraggiosi, il colle dell’Impiso ricorda che a quelle fronde vennero appesi i briganti nemici ai piemontesi. Almeno sette tipi di acero incendiano l’autunno, trasformando in tappeti rossi i sentieri che conducono a piccoli laghi e alle grandi vette. E poi c’è sua maestà il pino loricato, una specie che ha parenti solo in Grecia e sui Balcani, e che affolla la foresta più antica d’Europa con esemplari millenari.
Gli alberi sono il simbolo di popoli divisi dalle montagne ma che lì non si dividono in lucani e calabri, perché hanno comuni tradizioni. Nonostante le tante dominazioni – dai romani agli spagnoli, passando dai longobardi e dai normanni – questa è rimasta una terra inconquistabile. Chiusa al punto che fino al Settecento c’erano villaggi dove si adoravano divinità pagane. Gli alberi erano il tramite con Dio. E lo sono ancora. A Rotonda infatti, nelle prime due settimane di giugno, si celebra il matrimonio tra un abete e un faggio: più di duemila anni fa il rito era dedicato ad Atena, oggi a Sant’Antonio.
E insieme agli alberi si onorano le montagne, che sono le più alte del Meridione. La cerimonia più sentita, la prima domenica di luglio, è offerta alla madonna del Pollino: la sua statua viene trasferita in processione da San Severino lucano ai millecinquecento metri di uno sperone dov’è posta una piccola chiesa e dove la statua rimane fino al termine di settembre. Qui i cattolici vivono accanto agli Arbereshe da seicento anni, da quando gli albanesi – per sfuggire ai turchi – trovarono riparo portandosi appresso la lingua e il rito greco-ortodosso.
Civita in albanese è Cifti, vuol dire nido d’aquila, ed è uno splendido borgo sospeso tra un sopra e un sotto. Sopra dominano i contrafforti che conducono ai duemiladuecento metri del Dolcedorme, la vetta del Pollino: su quei costoni riposano i grifoni che viaggiano dall’Africa ai Balcani, curati a distanza dagli uomini del Parco. Sotto invece si apre una ferita profonda settecento metri. È la gola del Raganello, diciassette chilometri tra rocce e acqua: un’esperienza mistica per chi intende attraversarla, un racconto per chi risale e si riposa sul ponte del Diavolo.
L’acqua è l’elemento che scatena i sensi, nei meandri del Raganello come nel canyon del fiume Lao, dove giungono fin dal Sud America per cavalcare in rafting la potenza delle piene primaverili. Mentre d’estate il rio si assopisce e i turisti possono godere di una navigazione più tranquilla, tra soste nei boschi e sotto gelide cascate, accompagnati da sherpa bene organizzati. Il Parco si vive a piedi, in bici, a cavallo. E con un binocolo, così da scorgere in ogni zona un altro simbolo del Pollino, i rapaci. L’amore verso questi animali è visibile: ad Acquaformosa c’è uno dei centri per la cura degli esemplari offesi dai bracconieri; a Civita la falconeria dei Sette Venti rinnova, per passione e non per caccia, un’antica tradizione. Su e giù per le «timpe», i ripidi scoscesi, si è circondati dall’oro ereditato dalla natura e dall’uomo. Dalla rocca di Mormanno, giunti a Papasidero, si entra nella grotta del Romito e si piomba nel Paleolitico, con il graffito di un bovide che sta all’ingresso di un antro dove – tra sepolture e oggetti – si può immaginare la vita dei cacciatori preistorici. A San Donato di Ninea si ammira invece l’architettura bizantina, tra tetti in cotto e cupole di chiese rivestite da maioliche colorate. Non è Basilicata nè Calabria: è il Pollino. Lo si può vedere dalla porta a settentrione di Campotenese o da quella meridionale di Malvito, con il suo castello di origine longobarda e le sue viscere romane, ora messe in mostra.
È tutto un luccichio. Basta non avere fretta. Che poi è il consiglio della guida del Parco, Carmelo Pizzuti, capace di far vedere ciò che un istante prima i visitatori avevano solo guardato: «Qui la natura mostra la sua intima forza e nello stesso tempo la sua grande fragilità, esposta com’è all’arbitrio umano». Conservare il territorio è la sfida più ambiziosa, «specie dopo aver assunto una dimensione internazionale», spiega il presidente del Parco, Mimmo Pappaterra, che descrive l’organizzazione per fronteggiare emergenze e incendi anche con i droni. E parla del «marchio di qualità ambientale» con cui si dà garanzia sui prodotti agro-alimentari e sull’ospitalità. Perché qui non c’è traffico, non ci sono code e nemmeno hotel a cinque stelle. Ma agriturismo e B&B sono prenotati ogni anno da francesi, inglesi, tedeschi, i quali ripercorrono la strada fatta nel Settecento dai loro connazionali, scrittori di fama e maestri di pittura che descrissero l’oro del Pollino.