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 2017  luglio 20 Giovedì calendario

«Pino il judoka da Scampia al trionfo. «Io non cado»

«Io non cado», si ripeteva il piccolo Pino Maddaloni quando, a 7 anni, scendeva le scale del palazzo delle Vele di Scampia, dove abitava e affrontava la derisione degli altri bambini perché usciva con la borsa dell’allenamento. «Io non cado», continuava a dirsi quando uno dei tre autobus che lo avrebbero condotto in palestra non passava. «Io non cado» si disse infine quel 18 settembre di 17 anni fa quando a Sydney vinse l’oro olimpico nel judo. Quel giorno, su quel tatami che non lo vide cadere nemmeno una volta in cinque incontri (e nel judo se cadi perdi) sparì tutto. Scampia, le Vele, la miseria, la fatica. «E ancora adesso – dice Pino, oggi 41enne – di fronte alle difficoltà, mi ripeto: io non cado».
La vita da film di Pino Maddaloni e quella di suo padre Gianni sono state raccontate nella pellicola per la tv «L’oro di Scampia», diretta da Marco Pontecorvo e prodotta da Picomedia-Ibla con Rai Fiction nel 2014. Se Gianluca Di Gennaro impersona Tony Capuano, nome dietro il quale si nasconde Pino, Beppe Fiorello ha dato il volto a Enzo Capuano, cioè al grande Gianni Maddaloni, che a Scampia e non solo tutti conoscono come O Maè. Il maestro. «Mio padre – continua Pino – cominciò a combattere sul tatami anche per scaricare la tensione». Sì, non fu facile per i Maddaloni lasciare la casa di Miano (danneggiata dal sisma del 1980) e trasferirsi a Scampia, alle Vele. «Non avevo un fisico adatto per gli sport. Ero cicciotto, goffo». Mai avrebbe immaginato di conquistare un oro olimpico. Perché non ha mai fatto una vera preparazione atletica. «Mio padre ha solo 19 anni più di me. Quando aprì la palestra a Scampia, facendo debiti per 25 milioni, non capivamo se lo faceva per salvare i ragazzi dalla strada o se faceva sul serio. Fatto sta che io non avevo un preparatore atletico, né un nutrizionista. Nulla». C’era solo la voce di Gianni che ad ogni mancata vittoria diceva «ti devi allenare di più».
Poi, certo, c’era il cielo di Scampia. «Molti dei miei amici dell’epoca oggi non ci sono più. Alcuni in galera, altri morti. Quando uscivo con la borsa dell’allenamento gli altri bambini mi fermavano e, con la scusa di imparare una mossa, mi picchiavano. Mi toccava fare a botte prima di un durissimo training sul tatami. Ma c’era un’altra cosa che mi pesava di più». Qualcosa che brucia ancora oggi, oggi che ha alle spalle un oro olimpico e esperienze come la guida della nazionale. «Mi pesava non sapere bene perché, quando perdevo, perdevo». Le seduzioni non sono mancate, certo. Ma a chi lo invitava a lasciare la palestra del padre per una struttura con più possibilità, Pino ha sempre detto no. «Non volevo vincere e basta. Mio padre mi ha insegnato che la cosa più importante è diventare bravo».
Nel film di Pontecorvo la testardaggine intelligente di Gianni si riverbera su Pino, che impara la lezione: se si perde è perché non ci si è allenati abbastanza. Fa niente se non hai il nutrizionista che ti vieta i casatielli e le sfogliatelle. Fa niente se non hai l’agente che ti promuove. Nella palestra di Gianni Pino era uno tra tanti: «Ma non volevo cadere. Né in mano alla criminalità né preda del vittimismo, che spesso da noi induce a dare la colpa agli altri». Poi arriva quell’anno magico, il Duemila. «Non avevamo soldi. Quando gareggiavo a Roma io e la mia famiglia partivamo alle tre del mattino da Napoli e tornavamo in serata. Quella volta, per seguirmi alle Olimpiadi, papà si vendette la moto». Nessuno scommetteva sui Maddaloni. «I più gentili suggerivano di rinunciare, altri remarono contro». Pino volò in finale con il brasiliano Tiago Camilo. E non cadde.
Cadrà, certo, negli anni successivi a quel podio. Un infortunio, l’uscita dalla nazionale, gli sponsor che si allontanarono quando smise di gareggiare. Ma ancora oggi Pino si alza al mattino nella sua Napoli e si ripete: non cado. «Perché la sfida mia e di mio padre continua. Lui ha ancora la sua palestra nella quale accoglie tutti, anche i bambini senza genitori e che non possono pagare. Centinaia di persone. Aspettiamo che il nostro progetto della Cittadella dello sport si realizzi. Io sono responsabile della sezione giovanile di Montedidio, vicino ai Quartieri Spagnoli. Come papà, ai ragazzi non insegno a vincere ma a non lamentarsi, ad allenarsi di più. La mia paura è che molti ragazzi di talento lascino il nostro Paese perché scoraggiati. È vero che i cosiddetti sport minori hanno meno appeal del calcio. E allora ai calciatori dico: quando vi intervistano approfittate di ogni spazio per lanciare messaggi. Come quello di mio padre».