Libero, 19 luglio 2017
Borsellino perseguitato da mafia e antimafia
Il silenzio. Quello di una chiesa. Era una domenica del primo autunno 1992 e Paolo Borsellino era già morto. Ad Arese, provincia di Milano, il fratello Salvatore Borsellino salì sull’altare e lesse una lettera che Paolo gli aveva scritto poco tempo prima, nella consapevolezza di avere i giorni contati. Paolo e Salvatore peraltro non si erano visti nè sentiti da molto tempo. «Quelle parole furono la testimonianza di una fede viva e profonda, e Salvatore, anche grazie a quella lettera, si riavvicinò alla fede. Ogni domenica, Salvatore accompagnava sua madre a messa ed era una vecchietta piccola, vestita di scuro, che non parlava mai. Io ci ha raccontato Mariella, catechista di Arese la accompagnavo a ricevere la Comunione: mi ringraziava con gli occhi, colmi di dolore e dolcezza. Ricordo Paolo Borsellino negli occhi della madre, e prego per lui e per la sua famiglia. Ora sono passati anni, la piccola madre non c’è più, e non c’è più quel Salvatore Borsellino. Ricordo quella lettera e credo che Paolo non approverebbe la politica dei propri cari, e mi sono detta che Salvatore, invece di sventolare libretti rossi, dovrebbe rileggere a tutti l’ultimo testamento di Paolo: che parlava di fede, perdono, silenzio».
IL CANAIO IN SUO NOME
Silenzio. Chissà se avrebbe potuto immaginare, Paolo Borsellino, un solo centesimo del canaio che da allora è stato fatto in suo nome. E chissà se l’avrebbe immaginato sua madre, che era un bel tipetto: quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia, nel 1940, vietò ai figli di accettare doni dagli americani. Probabilmente era stata di destra come lo divenne anche Paolo. Nel marzo 1992, quando l’ex magistrato Giuseppe Ayala lasciò il palazzo di Giustizia perché si era candidato al Parlamento, il dialogo con Borsellino fu surreale: «Non ti posso votare»; «Perché?»; «Sono monarchico, la Repubblica non fa per me. Tu sei repubblicano e io non ti voto». Tutto ovviamente sul filo dell’ironia, come per gli sfottò legati al passato di Borsellino da simpatizzante del Fuan: «Lo chiamavo camerata Borsellino», ha raccontato Ayala nel libro La guerra dei giusti. «Ci rideva su, io entravo sguainando il braccio destro e lui rispondeva allo stesso modo».
Amico vero di Borsellino del resto era Guido Lo Porto, deputato missino, oppure Giuseppe Tricoli, il professore di Storia con cui Borsellino passò l’ultimo giorno della sua vita. Ma il silenzio, dicevamo: «Paolo non amava parlare molto dei suoi disagi. Era raro che della sua solitudine parlasse in famiglia», ha raccontato Rita Borsellino, «perché quando ci incontravamo c’era sempre nostra madre, e lui davanti a mamma non parlava. Quando dovette partire per l’Asinara, per scrivere la requisitoria del maxiprocesso, le disse soltanto: ci portano in un posto, non posso dirti dove, non posso dirti quando, non potrò comunicare con te». Si parla del 1985, come racconterà Paolo Borsellino al Csm: «Io e Falcone fummo chiamati dal questore che ci disse che lo stesso giorno dovevamo esseri segregati in un’isola deserta con le nostre famiglie: perché se questa ordinanza non la facevamo noi, se ci avvessero ammazzati, non la faceva nessuno perché nessuno era in grado di metterci mano. Siccome io protestai, dicendo che questa decisione non doveva essere attuata immediatamente, perché Falcone è senza figli, ma io avevo famiglia e dovevo regolarmi le mie faccende, mi fu risposto in malo modo che i miei doveri erano verso lo Stato e non verso la mia famiglia. Dopo 24 ore scaricarono me, Falcone e le rispettive famiglie in quest’isola. Tra parentesi, io non amo dirlo, ma lo devo dire: tutta questa vicenda ha provocato una grave malattia a mia figlia, l’anoressia psicogena, e mi scese sotto i 30 chili. Siamo stati buttati all’Asinara a lavorare per un mese e alla fine ci hanno presentato il conto, ho ancora la ricevuta».
UNA FAMIGLIA VIVACE
Il silenzio, dopo la morte di Paolo il 19 luglio 1992, sarà rotto anche da una famiglia di cui tutti in qualche modo abbiamo avuto notizia. C’è appunto Salvatore Borsellino, fratello minore di professione attivista in virtù del suo Movimento delle agende rosse, questo mito su un’agenda che non si sa neppure se esista, se sia esistita, se il magistrato l’avesse con sé quando fu ucciso, se fu trafugata o solo persa, se ci fossero su appunti giudiziari o che altro, niente, zero, aria: eppure l’hanno fatta diventare «la scatola nera della Seconda Repubblica» (Marco Travaglio) o bene che vada «il motivo per cui Paolo è stato ucciso» (Rita Borsellino). Salvatore Borsellino comunque è quello che suggerì ad Antonio Ingroia, che si è sempre detto allievo di Paolo Borsellino, di mettere nella sua lista politica anche Benny Calasanzio Borsellino, coautore di un libro-intervista a Salvatore Borsellino in cui quest’ultimo parla del fratello Paolo Borsellino, e nipote, sempre Benny, di un altro Paolo Borsellino trucidato dalla mafia: non il magistrato, ma un omonimo pure lui ucciso in Sicilia negli anni ’90, come ricostruito dal fratello di Paolo Borsellino (il secondo) che si chiama Pasquale Borsellino. Il citato Ingroia, com’è noto, per lungo tempo tempo ha indagato sulla morte di Paolo Borsellino a margine dell’inchiesta sulla “trattativa” che si basava anche sulle testimonianze di Agnese Borsellino, moglie di Paolo Borsellino e madre di Manfredi Borsellino, quest’ultimo apprezzato testimone della gesta di suo padre e attaccante della nazionale magistrati, anche se è commissario di Polizia.
LO SCIACALLAGGIO
Discorso a parte quello di Rita Borsellino, sorella di Paolo e parlamentare europeo del Pd. Ma la famiglia, almeno, era la famiglia. Discorso a parte meriterebbe l’osceno marketing del defunto che miliardi di sciacalli “antimafia” hanno costruito in 25 anni: ma oggi non vogliamo farlo, questo discorso. Perché Paolo Borsellino andrebbe ricercato nei suoi scarni scritti, nelle trascrizioni dei suoi interventi, nella cultura sobria ed estremamente dignitosa ereditata dalla madre, nell’umiltà di chi la mafia, giorno dopo giorno, la combatte davvero. Magari in silenzio.
Le testimonianze ci sono. Le trascrizioni, le registrazioni ci sono. E i libri, pochi tra tantissimi. Ora ne è uscito uno molto bello scritto dal presidente del Senato, Pietro Grasso, che a lungo lavorò con lui e ne condivise l’amicizia e i drammi: è pieno di dettagli inediti ed è scritto con un affetto che quasi si cerca di occultare, come se esibirlo fosse troppo impudico, poco coerente col Paolo Borsellino che Pietro Grasso vuole ricordare. Anche se ricorda, ovviamente, quel 23 maggio 1992, quando Falcone saltò in aria con tutta la scorta mentre lo show televisivo del sabato sera, sulla Rai, andò puntualmente in onda tre ore dopo la strage. Paolo Borsellino non fu più lo stesso uomo. I suoi ritmi si fecero ancora più convulsi: sveglia alle cinque di mattino, spostamenti furtivi, tre pacchetti di Dunhill Special Light al giorno. Perse il suo humor proverbiale, restava silente per ore.
DOPO CAPACI
Borsellino lasciò Marsala e tornò a Palermo per riprendere il posto di procuratore aggiunto che era stato di Falcone, ma in base a un principio di anzianità gli fu impedito di occuparsi della mafia palermitana e lo relegarono alla provincia di Trapani. Ogni volta che un collaboratore della giustizia chiedeva di parlare solo con Borsellino ecco che a palazzo tornavano i mugugni di sempre. Quando il pentito Gaspare Mutolo chiese espressamente di lui, i vertici della procura cercarono di impedire il contatto: Borsellino per spuntarla dovette minacciare le dimissioni. Nella camera ardente dei caduti a Capaci, secondo il ricordo di Grasso, Paolo Borsellino aveva avvisato tutti: «Chi vuole andare via da questa procura se ne vada, ma chi vuole restare sappia quale destino ci attende: il nostro futuro è quello lì», disse puntando il dito verso le cinque bare. Poi, il 19 luglio 1992, i primi tam tam dicevano che avevano fatto saltare Giuseppe Ayala, il giudice appena eletto deputato repubblicano. I suoi figli già lo piangevano, anche perché altra spiegazione non c’era: in quella zona, a due passi da via Autonomia Siciliana e a trecento metri da via Mariano D’Amelio, c’era lui e non altri. Invece Ayala era per strada che camminava verso quel portone annerito. Vide due cadaveri, poi un terzo. Neanche lui sapeva che la madre di Paolo abitava lì. Brandelli umani, rottami di lamiera, poi inciampò in qualcosa. Guardò per terra e riconobbe quel naso grifagno, quei denti, un tozzo scuro.
Era inciampato in un pezzo del suo amico Paolo Borsellino, morto sotto la casa della madre. Con lui morirono gli agenti Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cusina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, prima donna a far parte di una scorta. Una giovane ragazza che accanto a Borsellino aveva consentito d’incastrare decine di mafiosi, Rita Atria, si suicidò una settimana dopo. Quando la salma di lei fu riportata a Partanna, nella valle del Belice, il paese l’accolse con disprezzo. Aveva 18 anni. E siamo, 25 anni dopo, ancora tutti qui a scrivere e a parlare, litigare, polemizzare, accusare, e soprattutto dimenticare che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ora, miracolosamente, sono forse gli unici italiani che noi tutti indistintamente amiamo. Chi in silenzio, chi no.