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 2017  luglio 17 Lunedì calendario

Atenei e non profit re di denari. Da Harvard e Yale a Bill Gates: miliardi e potere negli Usa

A inizio ’900, l’università inglese di Cambridge investiva la maggioranza del suo patrimonio in campi agricoli. Oggi le cose sono cambiate. Le fondazioni non profit legate alle grandi università Usa che sfornano ogni anno futuri capi di Stato, scienziati e politici e quelle filantropiche come la Bill & Melinda Gates Foundation hanno aumentato a dismisura il loro patrimonio. Esentate dalle tasse, vedi in America, investono i loro beni in maniera ben diversa rispetto al passato. Il risultato è sorprendente, soprattutto se paragonato a un paese come l’Italia. Come riporta un interessante studio di Nextam Partners, le sole fondazioni universitarie statunitensi hanno un patrimonio complessivo di 515 miliardi di dollari e le prime trenta fondazioni private a scopo filantropico arrivano a 300 miliardi. Per fare un confronto, l’universo delle 88 fondazioni bancarie italiane arriva complessivamente a “soli” 41 miliardi di euro. In questo campo, ci sono istituzioni storiche come la Rockfeller Foundation (l’università di Chicago è nata grazie al miliardario americano), la Carnegie nel campo culturale, la Getty per quello artistico. “Ma è un universo che cresce e piace sempre di più ai ricchi”, sostiene Thomas Blaney, direttore dell’agenzia Private Foundation Practice, “perché unisce filantropia, continuazione dell’attività nel tempo e una sicura sponda per la famiglia che vi investe”.

Modelli gestionali. Sono numeri eccezionali, che
illustrano un modello di gestione e di obiettivi che è cambiato nel tempo e che, nonostante le fluttuazioni del mercato, è sempre più positivo. È interessante notare, per esempio, che le fondazioni universitarie statunitensi più grandi, come per esempio il prestigioso trittico “Ivy League” Yale, Harvard e Princeton, investano soprattutto in private equity ed hedge fund. Se all’inizio del secolo scorso si puntava sugli immobili e poi negli anni Quaranta e Cinquanta sulle azioni pubbliche, da un paio di decenni è la gestione attiva a farla da padrona. Tanto che gli asset di tutte e tre sono giudicati rischiosi per almeno il 90 per cento (Princeton addirittura il 95). Ma il loro rendimento medio annuo oscilla tra l’8 e il 13 per cento. Mentre quello totale, negli ultimi dieci anni, nonostante le gravi perdite della crisi nel 2009, è stato il 64,6 per cento per Harvard, il 108,5 per cento per Yale e addirittura un abbondante 118 per cento per Princeton.

Eccellenze a Yale. Prendiamo il caso di Yale. Qui, a New Haven, dove sono passati Bill e Hillary Clinton, i Bush, l’attuale segretario al tesoro Usa Mnuchin, una cascata di Nobel e Pulitzer come Paul Krugman e Bob Woodward, professori come Harold Bloom e primi ministri come l’italiano Mario Monti, ma anche Jodie Foster e Meryl Streep, il re degli investimenti dell’università americana si chiama David F. Swensen. Sessantatré anni, del Wisconsin, è lui, insieme alla sua controfigura intellettuale, il direttore Dean Takahashi, a gestire e soprattutto investire il patrimonio da 25 miliardi di Yale. Swensen voleva fare il maestro, ma poi è passato alla finanza. E ora lavora con un metodo molto diverso da quando Yale dovette chiedere nel 1825 l’intervento statale per aver puntato gran parte delle sue risorse nel titolo azionario della locale Eagle Bank di New Haven, andata in bancarotta per una bolla immobiliare simile a quella del 2008 dei subprime che ha scatenato il caos economico e soprattutto finanziario nel mondo. Non a caso, Swensen oggi definisce gli investimenti nell’immobiliare crollati nel 2009 come “il mio più grande errore dei miei ultimi 30 anni”.

Swensen approach. Swensen è famoso in America proprio per aver rivoluzionato la strategia. Se fino a qualche decennio fa Yale investiva principalmente in bond e azioni, lui l’ha vivacizzata puntando su private equity e venture capital. E così ha coniato il cosidetto “Swensen approach”, modello per molti oggi nel mondo anglosassone. I ritorni sugli investimenti di Yale sono poderosi: 12,9% annuo negli ultimi 30 anni. In pratica, coprono oramai il 30 per cento delle spese annue della fondazione, che nel frattempo ha accresciuto il proprio patrimonio. Più o meno lo stesso, vale anche per Harvard, dove sono passati, tra gli altri, Barack e Michelle Obama, John Fitzgerald Kennedy, Roosevelt, David Rockfeller, il genero e consigliere di Trump Jared Kushner, ma anche Mark Zuckerberg e Bill Gates.

Bill & Melinda. A proposito di Bill Gates. La fondazione a nome suo e di Melinda è una delle più famose al mondo e secondo molti analisti attualmente la più grande. L’obiettivo della loro creazione è quello di migliorare le condizioni di vita della popolazione mondiale, sopratutto in Africa e nei paesi in via di sviluppo, e combattere le pandemie come Aids e malaria. Fondata nel 2000, oggi ha mille dipendenti, un patrimonio di 40 miliardi di dollari (Bill Gates sinora ne ha versati 28) e nel 2015, grazie ai suoi rendimenti, ha potuto erogare in progetti mondiale oltre 4 miliardi, e complessivamente 37 miliardi dalla sua nascita. Quasi il suo attuale patrimonio. Gli introiti dopo la crisi del 2008 si sono ridotti, ma dopo l’agitazione dei mercati e delle economie, si sono stabilizzati. Chi negli anni non si è adeguato al mercato e alla finanza, è spesso rimasto con il cerino in mano.

Curioso, come segnala lo studio Nextam, il caso della fondazione americana Cooper Union nata dall’industriale americano Peter Cooper nel 1859 con un obiettivo: fornire l’istruzione universitaria a tutti, cioè agli studenti meritevoli, e non in base alle loro possibilità economiche (come accade a Yale e Harvard). Il problema è che la Cooper ha a lungo investito oltre l’80 per cento del suo patrimonio nel settore immobiliare, rappresentato in grandissima parte dal terreno sottostante al Chrysler Building di New York. Sin dagli anni 90 Cooper accumulava deficit, intaccando sempre più il proprio patrimonio. Quando poi nel XXI secolo è arrivata la congiuntura sfavorevole e l’immobiliare è crollato, ecco che Cooper ha rinunciato all’obiettivo primario della fondazione, rinunciando all’istruzione gratuita.

Le controversie. Al di là di simili casi, le fondazioni anglosassoni sembrano non fermarsi mai. Anche se di recente sono state criticate non poco, soprattutto negli Stati Uniti. Lo scorso maggio, uno studio del Chronicle of Philantropy di Washington ha notato come il “business” sia ancora troppo in mano ai bianchi, che occupano oltre il 70 per cento dei board. Ma il Wall Street Journal la settimana scorsa evidenziava un ulteriore trend negativo delle grandi fondazioni americane di oggi, una sorta di pericoloso cortocircuito: se l’obiettivo ideale delle fondazioni sarebbe investire dove non arriva lo Stato e quindi anche incentivare quest’ultimo a farlo, negli ultimi tempi in America sempre più fondazioni riversano denaro su progetti “mission investments” (cioè con un impatto sociale e non solo finanziario e puramente filantropico) dove lo Stato è già ampiamente presente, con sussidi ed elargizioni varie, vedi gli investimenti di Rockfeller in progetti di energia rinnovabile lanciati dal governo federale o quelli della Ford Foundation in Tesla, già ampiamente sovvenzionata da Washington. Questo, secondo il Wsj, oltre a scatenare il rischio per le fondazioni di perdere la loro indipendenza, innesca anche il pericolo di buttare via risorse importanti tappando i buchi e le deficienze dei progetti statali, che potrebbero portare nell’abisso i loro sforzi. Un abbraccio imbarazzante, secondo il quotidiano finanziario americano, che potrebbe essere molto dannoso.