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 2017  luglio 19 Mercoledì calendario

Hotel e casinò, così è nato l’impero di Trump

Donald Trump si è forgiato nel mondo delle costruzioni e in quello del gioco d’azzardo, due industrie che respingono gli insicuri o i deboli di stomaco, e che sono storicamente infiltrate dalla criminalità organizzata. Per saggiare la capacità di resistenza del presidente americano in un momento in cui si sventola lo spauracchio dell’impeachment, può aiutare una ricostruzione di come Trump è riuscito a sopravvivere alle sfide di quei due settori.
Il mentore
A parte il padre Fred, arricchitosi costruendo palazzine nel quartiere popolare del Queens, il grande mentore di Donald Trump è stato Roy Cohn, uno degli avvocati più odiati – e odiosi – della storia politica e giudiziaria americana.
Dopo essere stato durante il maccartismo un inquisitore implacabile, Cohn ha assistito per decenni i capi-clan di alcune delle più potenti famiglie di Cosa Nostra negli Usa. Il suo villino sulla 68esima strada fu luogo d’incontro di clienti quali Anthony Salerno, detto “Fat Tony”, e Paul Castellano, detto “Big Paulie”, boss dei clan Genovese e Gambino (il primo morto in un carcere federale del Missouri, il secondo assassinato dal suo erede, John Gotti). Era lì che Cohn riceveva telefonate e visite da “the Donald”. «Mi chiamava dalle 15 alle 20 volte al giorno, chiedendomi lo stato delle cose di quello o di quell’altro», spiegò in un’intervista.
Cohn era allora com’è oggi Trump: spudorato, disposto ad avere rapporti con persone dalle quali altri preferivano tenersi lontani, e incline a negare anche la più evidente delle realtà, rovesciando qualsiasi accusa su chi gliela lanciava.
È da Cohn che Trump ha imparato a rapportarsi con Cosa Nostra. Fin dalla sua prima avventura edile a Manhattan – la costruzione del Grand Hyatt sulla 42esima strada – nel suo percorso imprenditoriale l’attuale presidente ha avuto a che fare con soggetti direttamente o indirettamente legati alle cinque famiglie mafiose newyorkesi, e alla sesta che controllava Filadelfia e Atlantic City.
Si trattava ovviamente di persone i cui legami con la mafia furono accertati formalmente solo dopo i loro incontri con Trump, ma resta il fatto che a fornire il cemento per la costruzione di quell’hotel fu una società gestita da Edward Halloran, poi fallita in seguito a una raffica d’inchieste giudiziarie su Cosa Nostra. E che nell’ottobre del 1998 Halloran scomparve senza lasciare traccia. Probabilmente affondato nella baia di New York con un paio di “scarpe di cemento” ai piedi.
Come “consulente sindacale” Trump si era poi scelto Daniel Sullivan, un ex sindacalista vicino alla criminalità organizzata, socio di Kenneth Shapiro, un immobiliarista di Atlantic City che, secondo un’indagine dello Stato del New Jersey, era «un associato della famiglia Scarfo», il clan dell’omonimo boss mafioso di Filadelfia.
Per nulla diverso il giro dei fornitori usati nella costruzione della Trump Tower di Fifth Avenue. A partire dalla ditta che si occupò della demolizione dell’edificio di nove piani che occupava il lotto interessato, la Kaszucki & Sons Contractors. Da documenti del Tribunale di New York risulta che, dopo aver firmato un accordo con la Local 95, una sezione del sindacato dei lavoratori edili infiltrata dalla famiglia Genovese, Kaszucki assunse circa 200 lavoratori clandestini polacchi che costrinse a lavorare 10/12 ore al giorno, pagandoli meno della metà del minimo sindacale.
Nella causa intentata anni dopo da alcuni di quei lavoratori, Trump venne accusato di collusione con il presidente della Local 95 (condannato per estorsione in un’altra vicenda in cui si era fatto pagare 20mila dollari per garantire un altro costruttore dal rischio di scioperi). «È chiaro che Trump e i suoi avevano fatto un accordo di genere mafioso», testimoniò lo stesso “consulente sindacale” di Trump, Daniel Sullivan. Alla fine, la vicenda fu chiusa con un accordo extragiudiziale mai reso pubblico.
Il cemento per la Trump Tower fu comprato dalla S&A Concrete, allora controllata da due clienti di Roy Cohn, “Fat Tony” Salerno e “Big Paulie” Castellano. Le cronache dell’epoca riportano che fu lo stesso Cohn a far conoscere a Trump un altro personaggio dello stesso giro, John Cody, boss del sindacato dei camionisti, che in un rapporto stilato nel 1989 da una commissione d’inchiesta del Congresso venne definito «il più pericoloso esponente di un racket sindacale che da anni ricatta il mondo delle costruzioni di New York».
Nessuno ha mai appurato cosa Cody abbia fatto per Trump. Certo è che nel 1982, quando una serie di scioperi bloccò il settore edile newyorkese, il lavoro alla Trump Tower non ne risentì. E l’anno dopo, quando la Trump Tower venne completata, tre enormi appartamenti sul 64esimo e 65esimo piano, uno dei quali con l’unica piscina del palazzo, furono venduti a prezzo ritenuto di favore a Verina Hixon, amante di Cody. La Hixon non ci andò a mai a vivere e, quando Cody venne condannato per estorsione, Trump fece causa a Hixon per «mancato pagamento», ottenendo lo sfratto.
Da New York ad Atlantic City
In quello stesso periodo, Trump aprì il suo primo casinò ad Atlantic City, un edificio di 38 piani chiamato Harrah’s e costruito su un terreno comprato dall’accoppiata Sullivan-Shapiro. Poco dopo arrivò un secondo casinò, il Trump Castel. Nell’aprile del 1990 inaugurò il Trump Taj Mahal, all’epoca il casinò più grande e costoso al mondo.
Nell’agosto del 1990, davanti a debiti per 3,4 miliardi di dollari, l’Authority del New Jersey lanciò l’allarme con un rapporto in cui sosteneva che «il collasso finanziario dell’organizzazione di Trump non poteva essere escluso».
Nel 1991 Trump dichiarò il fallimento del suo Taj Mahal. L’anno dopo, quello del Castle. Un altro avrebbe cercato di salvare il salvabile. Trump decise invece di rilanciare, portando in borsa la Trump Hotels and Casino Resorts e raccogliendo 140 milioni, con il titolo quotato a 14 dollari. Subito dopo emise junk bond per altri 155 milioni e l’anno successivo, con quello che rimaneva del tesoretto raccolto in borsa dopo aver pagato 88 milioni ai suoi creditori, comprò a prezzi che gli analisti dell’epoca ritennero gonfiati il Taj Mahal e il Castle, con un’operazione in cui era allo stesso tempo compratore (con i soldi degli investitori) e venditore.
Tra il 1995 e il 2005, la Trump Hotels and Casino Resorts non riuscì a chiudere un solo esercizio in attivo, arrivando a perdere oltre un miliardo. Chi aveva acquistato ai 14 dollari della quotazione si ritrovò dieci anni dopo con un titolo che valeva 17 centesimi.
Neppure negli anni ad Atlantic City il futuro presidente smise di imbattersi in personaggi legati alla criminalità organizzata. John Staluppi, il socio con cui nel 1988 lanciò una linea di limousine di extralusso, era sospettato di far parte della famiglia mafiosa dei Colombo. Mentre Joseph Weichselbaum – il noleggiatore di elicotteri al quale, dopo aver venduto un appartamento, Trump affidò la manutenzione del suo velivolo personale – fu condannato nel 1986 per traffico di cocaina.
In un duplex al 59esimo e 60esimo piano della Trump Tower, nel 1986 fu arrestato Robert Hopkins, costruttore edile accusato di essere legato al clan dei Lucchese. Secondo il biografo di Trump Wayne Barrett, l’attuale presidente Usa presenziò alla firma del contratto di vendita dell’appartamento e alla paziente conta dei 200mila dollari cash riversati sul tavolo dallo stesso Hopkins. Nessuno gli chiese come mai maneggiasse cotanto denaro in contanti. La probabile spiegazione arrivò quando un tribunale newyorkese lo condannò per essere il boss di una rete di scommesse clandestine, che dal Bronx arrivava fino a Brooklyn.
Nessuna remora e molta spudoratezza sono gli stessi ingredienti del successo di Roy Cohn. Per lui funzionarono fin quasi alla fine. Cinque settimane prima che morisse, la Corte Suprema dello Stato di New York lo cacciò infatti dall’Ordine degli avvocati, togliendogli la licenza per le sue «condotte inscusabili».
Trump ha il vantaggio che, nel caso di una procedura di impeachment, a decidere sulle sue condotte non saranno giudici imparziali ma i suoi stessi compagni di partito.
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