Corriere della Sera, 18 luglio 2017
Delitto Caccia, ergastolo al killer. La sentenza arriva dopo 34 anni
MILANO C’è un ergastolo ieri alla fine delle montagne russe. Prima il nulla per 32 anni, quando ormai pareva che oltre al mandante ’ndranghetista Domenico Belfiore nulla più si sarebbe potuto sapere sui killer di Bruno Caccia, il procuratore della Repubblica di Torino assassinato alle 23.30 del 26 giugno 1983 e unico magistrato ucciso al Nord Italia dalla criminalità organizzata. Poi, di colpo il 22 dicembre 2015, l’apparente tutto: e cioè l’arresto (da parte della Squadra Mobile di Torino e della Dda milanese) di un affiliato «piemontese» della cosca di Gioiosa Jonica, il 61enne panettiere Rocco Schirripa, indicato dagli inquirenti quale secondo killer sceso dall’auto a dare i colpi di grazia a Caccia che era uscito di casa con il cane senza scorta. Ma, dopo 11 mesi, ecco ancora un nuovo k.o., sotto forma di vizio procedurale capace di azzerare il processo: l’errore dei pm milanesi che, per una sorta di «angolo cieco» di cancelleria, si accorgono di aver iscritto nel registro degli indagati Schirripa senza accorgersi che 15 anni prima fosse stato già brevemente indagato e archiviato da altri loro colleghi, e dunque senza prima richiedere al gip la necessaria riapertura delle indagini. E poi, però, dopo poche settimane, altro rovesciamento: il pm Marcello Tatangelo, con il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, ripartono da zero, amputano dalle prove alcune intercettazioni rese inutilizzabili dall’errore, e alla Corte d’Assise presieduta da Ilio Mannucci Pacini ripropongono il materiale superstite.
Un materiale particolarissimo, quasi una confessione stragiudiziale strappata nell’estate 2015 a Belfiore (mentre era ai domiciliari per gravi motivi di salute) e alla sua cerchia con l’escamotage di una lettera anonima spedita per far agitare gli ’ndranghetisti, bisbiglianti per accortezza sul balcone di Belfiore e tuttavia pure lì intercettati (altra particolarità di questa vicenda) usando per una delle prime volte un virus informatico utile a trasformare in «microspie» umane le persone che tenevano addosso i propri cellulari.
«Siamo caduti e ci siamo rialzati», non si nasconde in Assise il pm Marcello Tatangelo, che a fine processo corregge il tiro sulla ricostruzione: «Già le sole intercettazioni ci dicono con certezza che Schirripa partecipò al delitto, ma non ci dicono con quale ruolo, se esecutore o in appoggio» ad altri killer ancora da trovare (il verdetto, pur senza richiesta del pm, gli ha ritrasmesso anche gli atti, evidentemente per altri possibili accertamenti). «Sono pronto allo sciopero della fame», protesta Schirripa, «sono il capro espiatorio che l’accusa voleva a tutti i costi: niente di più facile che dare la colpa a uno che è terrone e compare di Belfiore».
«Questa sentenza è comunque un passo avanti, ma speriamo non finisca qui, ci sono ancora tanti pezzi di verità da aggiungere», si augurano con il legale Fabio Repici le figlie di Caccia, Paola e Cristina: «Fa arrabbiare che debbano essere i familiari a pungolare la giustizia».