il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2017
Colorate, sbagliate, esilaranti: il gusto danese per le locandine
C’è del genio in Danimarca. Del genio cinematografico, anzi, parafilmico: le locandine, anticipo e antipasto immaginifico di quel che vedremo – se accettiamo l’invito – sul grande schermo.
Manifesti, poster, fotobuste, soggettoni, foto di scena e affiches pubblicitarie fanno ormai stabilmente parte della storia del cinema: non solo promozione, ma documentazione, riflesso filmico e specchio dei tempi, codice visivo ed esempio iconografico. Ma che succede quando la locandina deve “tradurre” un film straniero?
Sotto l’insegna “Titoli impossibili”, indaga la Fondazione Cineteca Italiana, che fino al 12 settembre allo Spazio Oberdan di Milano mette in mostra 29 splendidi manifesti danesi che veicolano film prodotti fra anni Cinquanta e Sessanta. C’è di tutto, cinema di genere e d’autore, grandi registi e provetti artigiani, star di prima grandezza e duttili comprimari, si spazia dalla commedia “brontosaurica” Susanna (1938) dell’americano Howard Hawks a Tutto l’oro del mondo (1961) del francese René Clair, da Il mostro della laguna nera (1954) di Jack Arnold a Il mostro di sangue (1959) di William Castel, dal cultissimo I magnifici sette (1960) di John Sturges a un Alfred Hitchcock “minore”, Il peccato di Lady Considine (1949). Ovviamente, gli italiani non marcano visita: La donna del fiume (1954) di Mario Soldati, con una Sophia Loren da mozzare il fiato; Il bigamo (1959) di Luciano Emmer, interpretato dal trio delle meraviglie Marcello Mastroianni, Vittorio De Sica e Franca Valeri; Il terrore dei barbari (1959), per la regia di Carlo Campogalliani, un peplum strapaesano; la coproduzione italo-francese Le meraviglie di Aladino (1961), diretto da Henry Levin e – passaggio di testimone – Mario Bava, che vira al fantastico di cartapesta Le mille e una notte.
Le 29 in mostra fanno parte di una donazione di oltre 200 locandine, e hanno più di qualche assonanza: uniformità storico-geografica, impatto visivo, dimensioni classiche. Ma tra colori saturi e caratteri tipografici spavaldi il meglio sta, appunto, nella traduzione libera, liberissima: abbasso l’etichetta, al bando le convenzioni, i disegnatori si permettono di dimenticare il nome del regista, di equivocare sulla trama, anzi, di prospettarne un’altra. E così sull’affiche di Bringing up Baby (Susanna) i protagonisti Katharine Hepburn e Cary Grant triangolano ammiccanti con l’eponimo cucciolo di leopardo, mentre Fernandel e Elvis Presley aggettano nel loro status divistico. Non sempre, a dire il vero, questi manifesti rendono giustizia alla beltà degli interpreti: la Loren è assai meglio nel film, mentre l’hitchcockiana Ingrid Bergman incassa un pareggio sofferto. Eppure, il gusto vero è un altro: abbinare locandina e film, titolo danese e titolo italiano, diffidando di impressioni frettolose e “falsi amici”.
Questa esibizione è solo una delle tante iniziative di “Cineteca 70”, che fino a dicembre celebra i 70 anni della prima cineteca d’Italia, fondata da Luigi Comencini e Alberto Lattuada nel 1947. Al patrimonio di oltre 25mila film in pellicola (dalle origini ai giorni nostri), 15mila manifesti della storia del cinema italiano e mondiale, 100mila fotografie, la Cineteca associa una corposa raccolta di sceneggiature originali e la biblioteca di riviste e libri, recentemente arricchita dal fondo Morando Morandini, donato dalla famiglia del grande critico e costituito da migliaia di volumi presto a disposizione di studiosi e appassionati.