CorrierEconomia, 17 luglio 2017
Il personaggio: Angelo Moratti
Il commerciante inglese Sir Kensington aveva fatto fortuna inventando il ketchup, il condimento che ha fatto la storia e la ricchezza della Kraft Heinz, nonché del suo maggior azionista Warren Buffett. Ma adesso, nell’era del culto per il cibo sano, una versione bio di quella salsa di pomodoro, ribattezzata appunto Sir Kensington, fa bella mostra nel catalogo dell’acerrimo concorrente, Unilever. Reduce da un assalto (fallito) da parte del colosso Kraft Heinz giusto qualche mese fa. Ecco perché vendere le salse vegane a Unilever per 140 milioni di dollari sa quindi un po’ di «tradimento» (oltre che di ottimo affare), se l’artefice del deal è Angelo Moratti – amico e allievo di Buffett – con la sua Angel capital e i suoi coinvestitori. A partire dal veterano del venture capital della Silicon Valley, Tim Draper, fino a Keith Miller a capo del fondo newyorkese Goode, che avevano scommesso nella start up del bio ketchup sulla base di una valutazione iniziale di meno di 20 milioni di dollari. «Per la multinazionale europea è stata una mossa difensiva, un po’ come l’acquisto dei gelati italiani Grom. Per crescere e ritrovare valore in Borsa, dopo il tentativo di takeover da parte della Kraft, Unilever vuole scommettere su tecnologia, innovazione e qualità. I consumi vanno in quella direzione, che apre infinite opportunità per chi vuole entrare in nuovi business e per gli stessi investitori».
La storia
Angelo Moratti, 50 anni, da oltre venti investe in Italia e negli Stati Uniti. Angel capital, la holding milanese di cui possiede il 100% del capitale, ha investito direttamente 25 milioni in aziende in crescita. Ma è stata in grado di catalizzare 100 milioni da altri investitori. Il suo ispiratore è Warren Buffett, con la Berkshire Hathaway (una potenza di fuoco fino a 50 miliardi disponibili per gli investimenti) di cui Moratti è l’uomo di fiducia in Europa. Lo definì così lo stesso Buffett anni fa. Oltreoceano è amico storico anche di Howard Schultz, l’imprenditore del caffè Starbucks che sbarcherà in Italia, aprendo a Milano con l’insegna Reserve Roastery.
Ma qual è il suo modello di business? «Negli Stati Uniti rientro nella categoria degli Investor. Su quel mercato non esiste una classificazione tra private equity, venture o growth capital. La chiave è saper investire, riconoscere il proprio interlocutore – imprenditore di lungo percorso o creatore di start up —, capire il prodotto, avere competenze e un ampio network per attirare gli investimenti. Su tutto il pianeta dei consumi e del retail di marchi posso dare una mano». Un mondo dal quale Buffett è molto lontano. «Ha cambiato il mio modo di fare affari, mi ha dato chiarezza di visione. Anche se il suo gioco è ben diverso. Berkshire investe solo su grandi realtà, spesso monopoliste nel loro settore. Il criterio è puntare su titoli di grandi società che quotano con uno sconto medio del 30% con manager capaci. Buffett non entra nella gestione. Ha fatto così con Heinz e Kraft».Moratti con Angel capital, affiancato dal partner Paolo Gualdani, si muove in Italia e negli Stati Uniti, indossando i panni dell’investitore o del consulente d’affari che attrae altri capitali. Angelo è figlio della giornalista Lina Sotis e di Gian Marco Moratti, proprietario e presidente della Saras, l’oil company di famiglia della quale è vice presidente. «Abbiamo deciso che nessuno di noi della terza generazione avrebbe avuto ruoli operativi. La gestione è affidata a manager esterni», dice Angelo, che porta il nome di battesimo del nonno, fondatore del gruppo che lavora nella raffinazione petrolifera.
Quanto aiuta chiamarsi Moratti nella rete di relazioni d’affari? «In Nordamerica nulla. Anche gli italiani stanno diventando più pragmatici ma il cognome, certo, può aiutare ad attivare i capitali per le nuove iniziative. La disintermediazione negli investimenti, fin qui animati solo da attori come le banche, anche qui sta diventando più forte», spiega Moratti, tra gli iniziatori della formula degli investimenti in club deal, che ormai sono sempre più il nuovo paradigma degli affari.
Lo stile
Individua l’opportunità e chiama i capitali, di investitori finanziari o grandi aziende. Negli Stati Uniti investe in realtà piccole con prospettive di crescita. Sir Kensington, con il ketchup naturale e la maionese vegana, è nata nel 2012 dall’intuizione che anche in un comparto tradizionale come il food ci sarebbe stata discontinuità. Uno dei serbatoi di idee di Moratti è StartX, l’acceleratore dell’Università di Stanford. Da qui, per fare un esempio, è uscito Evan Spiegel, il fondatore di Snapchat. Poi ci sono vetrine come il board della Special Olympics international, il programma mondiale di allenamento sportivo e competizioni atletiche per oltre cinque milioni di persone con disabilità intellettiva, dove Moratti siede come vice president a fianco del ceo di Coca Cola, Mutar Kent e dell’ex numero due di Oracle, Ray Lane.
Così Moratti ha incrociato Mike Anders e Divesh Makan, i promotori di Iconiq capital, nato per gestire le fortune del fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg e che ora investe nella Silicon Valley, tanto da aver attratto anche la liquidità del fondatore di Napster, Sean Parker, e di Jack Dorsey (Twitter). «Li sto supportando nello sbarco in Italia – anticipa Moratti —. Vogliono capire chi sono gli imprenditori emergenti. Hanno liquidità da investire». In Italia Moratti cerca talenti tra food, sport, tempo libero, moda e design. Tra le quindici partecipazioni in portafoglio, ci sono gli integratori di Aloha e la Tok.Tv, un social network per appassionati di calcio, fondato da un gruppo di italiani nella Silicon Valley, tra i quali Fabrizio Capobianco, che ora conta 21 milioni utenti e accordi con Serie A Tim, Real Madrid, Juventus, Barcellona, Tottenham e forse presto con l’Inter di cui la famiglia Moratti è stata lo storico proprietario. Ma forse l’operazione perfetta l’ha chiusa pochi mesi fa con Princi, la catena milanese che inventò, trent’anni fa, la formula del locale-panetteria. Starbucks ne farà il fornitore esclusivo degli store di più alto livello. Il debutto del marchio italiano è atteso a Seattle e Shanghai, poi a New York e Tokyo dove il gruppo inaugurerà gli Starbucks Reserve Roastery. Princi sarà un brand globale. «La proprietà intellettuale resta a loro ma degli investimenti si occuperà il gruppo del caffè – dice Moratti —. Forse abbiamo trovato la chiave per convincere gli imprenditori italiani, preoccupati di perdere il controllo dell’impresa di famiglia, ad aprire alle corporation, senza rinunciare all’idea di essere proprietari. Almeno per un po’».
Daniela Polizzi
Top manager, guadagnano il giusto? No nel 30% dei casi
Negli Stati Uniti la trasparenza sul pay ratio, ossia il rapporto tra la remunerazione complessiva del capo azienda ed il costo mediano del lavoro, è obbligatoria per le società quotate a partire dal 2017. Negli Usa la sensibilità su questo tema è molto elevata e i sindacati dell’AFL-CIO (American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations) hanno realizzato la tradizionale indagine annuale sulle remunerazioni delle aziende dello S&P 500 evidenziando un compenso medio per il 2016 di poco superiore ai 13 milioni di dollari e un pay ratio pari a 347. Questo obbligo ha, tra le altre finalità, quella di indurre alla ricerca di una maggiore equità tra i compensi.
Alcuni Paesi europei stanno valutando di chiedere alle società quotate di inserire il differenziale retributivo nelle relazioni sulla remunerazione e questo nuovo requisito informativo potrebbe presto toccare anche l’Italia.
Il nostro Paese presenta però differenze marcate, sia in termini di dimensione che di struttura dei compensi, rispetto alla Corporate America come evidenzia l’Osservatorio sull’eccellenza dei sistemi di governo di The European House Ambrosetti che studia da oltre dieci anni la qualità dei sistemi di governo in Italia e le remunerazioni dei vertici aziendali.
Sono state considerate le relazioni sulle remunerazioni 2017 (riferite all’esercizio 2016) delle 116 società industriali (escludendo quindi banche e assicurazioni) dei tre segmenti di Borsa: Ftse Mib, il comparto delle aziende a maggiore capitalizzazione (24 società), Mid Cap, il settore delle aziende a media capitalizzazione (52 società) e Star, il segmento delle società ad alti requisiti a cui sono state sottratte quelle già presenti nel segmento Mid Cap (40 società). La capitalizzazione complessiva delle società analizzate rappresenta più del 90% delle imprese industriali del listino.
Sono stati considerati i ruoli apicali: amministratore delegato (ad) e dirigenti con responsabilità strategiche (drs, i primi riporti dell’ad). I compensi medi degli ad nell’Ftse Mib ammontano a circa 3,1 milioni di euro; la metà per il segmento Mid Cap e quasi 500 mila euro per i capi azienda dello Star. Mettendo insieme tutti i capi azienda, la media dei compensi ammonterebbe a poco più di 1,4 milioni di euro: 8 volte inferiori rispetto ai ceo di Oltreoceano.
I guadagni
Il differenziale retributivo in Italia potrebbe essere quindi un tema meno sentito, soprattutto se si considerano i suoi limiti. L’indicatore risente in modo significativo della localizzazione della base produttiva: difficile confrontare una banca italiana prevalentemente domestica con un produttore di cavi con stabilimenti in ogni parte del mondo.
Piuttosto si potrebbe confrontare il capo azienda con il gruppo più omogeneo dei suoi primi riporti. Il differenziale retributivo tra amministratore delegato e dirigenti apicali va da circa 3,8 per l’Ftse Mib all’1,7 nello Star: le buone pratiche suggeriscono, per evitare un divaricamento eccessivo tra il capo azienda e la sua squadra, di rimanere entro un valore compreso tra 3 e 5.
Dal punto di vista dell’Osservatorio di The European House Ambrosetti, la disclosure sul differenziale retributivo non risolve il problema dell’equità dei compensi: si dovrebbe favorire invece un meccanismo virtuoso che renda esplicito il legame tra la paga del management e risultati generati (in sintesi, il merito). Da tempo lamentiamo che questo legame non sia così evidente.
È stata realizzata un’analisi che ha considerato, sull’orizzonte temporale 2014-2016, l’andamento dei compensi variabili degli amministratori delegati e delle performance in termini di Ebitda delle 116 società quotate del campione. È stato considerato il parametro Ebitda in quanto è l’indicatore di gran lunga più diffuso nei sistemi di incentivazione variabile. Sono state identificate tre possibili situazioni: 1) coerenza; 2) difficile interpretazione; 3) incoerenza.
In più della metà delle osservazioni si evidenzia una correlazione tra compensi variabili e performance: risultano più virtuose le grandi società dell’Ftse Mib. Il rovescio della medaglia è che, nel complesso, in quasi un caso su tre, l’andamento del bonus non sembra spiegato dal trend dell’Ebitda. In parte, la mancata correlazione è legata alla struttura dei compensi. La remunerazione be presto toccare anche l’Italia.
Il nostro Paese presenta però differenze marcate, sia in termini di dimensione che di struttura dei compensi, rispetto alla Corporate America come evidenzia l’Osservatorio sull’eccellenza dei sistemi di governo di The European House Ambrosetti che studia da oltre dieci anni la qualità dei sistemi di governo in Italia e le remunerazioni dei vertici aziendali.
Sono state considerate le relazioni sulle remunerazioni 2017 (riferite all’esercizio 2016) delle 116 società industriali (escludendo quindi banche e assicurazioni) dei tre segmenti di Borsa: Ftse Mib, il comparto delle aziende a maggiore capitalizzazione (24 società), Mid Cap, il settore delle aziende a media capitalizzazione (52 società) e Star, il segmento delle società ad alti requisiti a cui sono state sottratte quelle già presenti nel segmento Mid Cap (40 società). La capitalizzazione complessiva delle società analizzate rappresenta più del 90% delle imprese industriali del listino.
Sono stati considerati i ruoli apicali: amministratore delegato (ad) e dirigenti con responsabilità strategiche (drs, i primi riporti dell’ad). I compensi medi degli ad nell’Ftse Mib ammontano a circa 3,1 milioni di euro; la metà per il segmento Mid Cap e quasi 500 mila euro per i capi azienda dello Star. Mettendo insieme tutti i capi azienda, la media dei compensi ammonterebbe a poco più di 1,4 milioni di euro: 8 volte inferiori rispetto ai ceo di Oltreoceano.
I guadagni
Il differenziale retributivo in Italia potrebbe essere quindi un tema meno sentito, soprattutto se si considerano i suoi limiti. L’indicatore risente in modo significativo della localizzazione della base produttiva: difficile confrontare una banca italiana prevalentemente domestica con un produttore di cavi con stabilimenti in ogni parte del mondo.
Piuttosto si potrebbe confrontare il capo azienda con il gruppo più omogeneo dei suoi primi riporti. Il differenziale retributivo tra amministratore delegato e dirigenti apicali va da circa 3,8 per l’Ftse Mib all’1,7 nello Star: le buone pratiche suggeriscono, per evitare un divaricamento eccessivo tra il capo azienda e la sua squadra, di rimanere entro un valore compreso tra 3 e 5.
Dal punto di vista dell’Osservatorio di The European House Ambrosetti, la disclosure sul differenziale retributivo non risolve il problema dell’equità dei compensi: si dovrebbe favorire invece un meccanismo virtuoso che renda esplicito il legame tra la paga del management e risultati generati (in sintesi, il merito). Da tempo lamentiamo che questo legame non sia così evidente.
del vertice aziendale è infatti generalmente costituita da 3 componenti (compenso fisso, variabile di breve termine e componente variabile di medio-lungo termine). Nelle società di minori dimensioni, la componente fissa della retribuzione del capo azienda supera ampiamente la metà del totale dei compensi: ciò contribuisce, in parte, a spiegare perché le remunerazioni degli ad presentino una elasticità ridotta rispetto alle performance conseguite.
Spiegare le performance
Secondo l’Osservatorio, l’equità si trova solo dimostrando che i compensi (seppur rilevanti) rappresentano solo una parte minima dell’effettivo valore creato. A tal fine, si potrebbe richiedere alla società emittenti di inserire nella relazione sulla remunerazione una tabella che evidenzi, su un orizzonte temporale lungo, ad esempio 3 o 5 anni, il compenso del vertice (Pay) e l’andamento delle principali variabili economico/finanziarie (performance). La raccomandazione è di rafforzare molto il contenuto della sezione 2 della relazione sulla remunerazione (quella in cui sono presentati i dati numerici sui compensi) spiegando in modo puntuale (come purtroppo pochi emittenti fanno) perché sono maturati i bonus e a fronte di quali performance.
Gli emittenti potrebbero anche fornire l’obiettivo del budget ex post e il suo livello di raggiungimento. Ad esempio, l’ad ha maturato un bonus di competenza 2016 di 200 mila euro a fronte di un budget di Ebitda 2016 di 100 milioni di euro e un consuntivo di Ebitda 2016 di 110 milioni di euro: in questo modo non ci sarebbero neanche criticità legate alla diffusione di informazioni sensibili poiché l’obiettivo di budget sarebbe fornito un anno dopo che è stato approvato. Così il mercato sarà in grado di capire se il compenso è davvero correlato ai risultati e quindi formulare un giudizio consapevole sia sul rispetto del principio del Pay For Performance che sul livello di sfida degli obiettivi aziendali. Società che pagano premi a fronte di buoni risultati creano inoltre i presupposti affinché parte del valore generato venga distribuito ai dipendenti, riducendo il pay ratio. E se proprio si volesse andare in questa direzione, l’Osservatorio suggerisce, come anticipato, di confrontare la remunerazione dell’ad con quella dei suoi riporti diretti: almeno il confronto sarà più semplice e omogeneo.
Valerio De Molli * e Marco Visani **
* Amministratore Delegato di The European– Ambrosetti
** Responsabile Governance Executive Compensation di The European House – Ambrosetti