Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  luglio 17 Lunedì calendario

Italia sempre ultima. È vero?

Ci sono alcune classifiche, fra le tante, che possono spiegare il perché l’Italia, salvo rare eccezioni, non abbia il posto che merita nel confronto con gli altri Paesi. La prima è il Country Report Track, del Reputation Institute, ovvero l’indagine sulla reputazione di 13 grandi nazioni. Ebbene gli italiani sono quelli che assegnano al proprio Paese un giudizio debole (57,1 in scala 100) molto al di sotto del voto che gli riconoscono gli stranieri (71,7), cioè tra il moderato e il forte. La Germania viene giudicata dagli altri 67,6; la Francia 69,3.
Il gap
L’Italia è il secondo Paese al mondo, dietro il Sud Africa, che registra un così ampio divario tra reputazione interna ed esterna. All’opposto c’è la Russia, il cui spirito nazionalista spinge i suoi cittadini intervistati ad esaltarne oltremisura l’ immagine. Forse non è il caso di imitare i russi (che magari temono le conseguenze della loro libertà di parola), ma certo la differenza colpisce. E secondo l’ Economic Optimist Index, siamo i più pessimisti, non solo d’ Europa. Il 56% degli intervistati vede nero contro il 51 della Grecia (che, tra l’altro, ha tagliato le pensioni per dodici volte), il 24 dell’Iran, il 39 della Turchia. Non teniamo conto del 17% del Brasile, il Paese più «felice» al mondo, né del 7 della Danimarca. Ma, anche in questo caso, possiamo dire che ci dipingiamo più preoccupati di quanto ragionevolmente dovremmo essere. In Francia i pessimisti sono solo il 27% e forse si dovrebbe ribaltare il significato della celebre frase di Jean Cocteau: «I francesi sono italiani di cattivo umore». Il pessimista italiano, parafrasando, un po’ Ennio Flaiano, si prepara al peggio pregustando le sorprese positive della vita, di cui si intesterà del tutto il merito.
Questo atteggiamento che ci vede inclini ad essere molto severi con il nostro Paese – e indulgenti con noi stessi e con le proprie appartenenze di territorio o categoria – spiega in parte la ragione per la quale, specie nelle classifiche basate su opinioni, non risultiamo così brillanti. Salvo lamentarci dei troppi pregiudizi stranieri in parte alimentati anche da noi stessi.
Questa considerazione non è assolutamente un’attenuante o, tantopiù, un’esimente. Alcune bocciature sono strameritate. Un esempio fra i tanti. L’indice sulla libertà economica dell’Heritage Foundation ci vede al posto numero 79. Moderatamente liberi. Bontà loro. Certo è difficile dimostrare a un osservatore straniero che il lungo iter (2 anni) della legge sulla concorrenza, esposta all’assalto delle lobby, sia un esempio di quanto il Paese aspiri all’apertura dei mercati. Al contrario, è la prova di quanto la tema. L’alta pressione fiscale e l’elevata spesa pubblica sono indicatori dell’ingerenza dello Stato. O della sua inefficienza nella difesa dei diritti di proprietà e nella ricerca dell’efficacia nel sistema giudiziario. Il caso della giustizia spiega un’altra piccola ragione della nostra scarsa performance. Le medie statistiche in Italia hanno, non raramente, poco significato. La durata media del contenzioso commerciale a Torino (207 giorni) o a Milano (283) è assolutamente in linea con l’Europa (in Francia 300, in Germania 200). Ma noi arriviamo in Sicilia a 1.400 giorni. E la stessa valutazione si potrebbe fare per gli indici PISA sul profitto scolastico.
Il metodo
Quando si va a scoprire come vengono costruite le principali classifiche ci si trova poi di fronte a molte distorsioni metodologiche. O asimmetrie culturali. Per esempio, un certo senso di superiorità nell’applicare agli altri schemi consolidati negli Stati Uniti o nel Regno Unito. E l’Italia paga, potremmo dire anche giustamente, un concetto assai relativo di rule of law, di cronica incertezza del diritto. L’eccessivo uso di survey qualitative porta poi a ponderazioni assai soggettive. In genere gli indicatori non tengono conto delle masse critiche e i Paesi più piccoli, come la Danimarca o la Svizzera, svettano anche al di là dei propri meriti. Non raramente si mischiano dati disomogenei. Troppe regole e troppe tasse sono piombo nelle ali. E in questo non abbiamo rivali. Ma competenze, sicurezza, qualità della vita e bellezza del paesaggio e del patrimonio artistico contano assai poco o nulla. L’assetto politico e istituzionale condiziona fortemente i confronti tra settori economici. E l’industria italiana è costantemente sottopesata.
Qualche dubbio sull’attendibilità di alcune graduatorie è legittimo. Siamo al 44esimo posto nel Global Competitiveness Index, dietro Malesia e Cile. Al 35esimo nel World Competitiveness Scoreboard, in coda a Thailandia e Repubblica Ceca. Nella classifica sulla corruzione percepita di Transparency International siamo passati dal 69esimo al 60esimo. Ma restiamo in compagnia di Lesotho, Montenegro e Senegal. Nel World Press Freedom Index siamo alla casella numero 77 su 180 Paesi. Il Burkina Faso è avanti a noi (48). E pure il Salvador (58) con un regime che perseguita i giornalisti e un tasso annuale di omicidi cento volte il nostro. In Italia, è bene ricordarlo, i reati contro le persone e le proprietà sono in diminuzione da anni. Nel Global Talent Competitiveness Index otteniamo il quarantesimo posto, battuti da Slovenia, Malta e Barbados. Un tentativo di classificare meglio le potenzialità economiche e sociali del Paese è stato realizzato da Ambrosetti European House. Una ricerca con il sostegno di Abb, Unilever e Toyota. Secondo il Global Attractiveness Index, che misura il grado di attrattività del Paese, l’Italia si colloca al 14esimo posto, prima di Austria e Spagna. «Ma rimaniamo – spiega uno dei componenti del comitato scientifico della ricerca, l’ex ministro del Lavoro, Enrico Giovannini – molto distanti dai primi. Bisogna costruire consenso, agendo come un sistema, dimostrandoci seri e affidabili». Il Global Attractiveness Index sarà aggiornato, in occasione del consueto forum annuale, il prossimo settembre a Cernobbio.
Molti Paesi fanno delle classifiche una «questione nazionale». Considerano gli avanzamenti nelle varie graduatorie alla stregua di un successo della loro nazionale di calcio. Noi a volte non rispondiamo neppure ai questionari. Negli uffici pubblici e privati coinvolti dalle ricerche internazionali, il reperimento dei dati e l’onere delle risposte sono spesso affidati, con noncuranza, agli ultimi arrivati. Non esiste un coordinamento efficace.
Singapore ha un’agenzia governativa specializzata nel ranking e insegna persino agli altri Paesi come risalire nelle classifiche. La Polonia nell’Easy of doing business, è passata, in dieci anni, dal 75esimo al 24esimo posto, davanti a Italia (50) Francia e Spagna. Ha un sito (Invest in Poland) in otto lingue. Ha fatto di tutto per ottenere il primo posto nella categoria trading across border, nella riduzione di tempi e procedure doganali a Danzica. La Croazia è balzata, sempre in dieci anni, dal 124esimo al 43esimo posto. Il Kenya, oggi al numero 70 tra le economie mondiali, si è impegnato ufficialmente per entrare, prima del 2020, nelle prime 50 posizioni dell’Easy of doing business. Davanti all’Italia. E noi continueremo a farci del male da soli?