Libero, 14 luglio 2017
I carcerati protestano per far l’amore in cella
La negazione dell’affettività è un problema che affligge da sempre il sistema penitenziario italiano. Qualora la pena avesse una mera finalità punitiva, tale privazione avrebbe ragione di esistere. In un sistema, invece, in cui la pena ha una funzione di difesa della società, di risocializzazione e di rieducazione del reo, la mancanza di contatto fisico in carcere non solo non ha giustificazione, ma costituisce persino un supplizio inutile e crudele, che isola del tutto il carcerato, facendogli percepire la sua condizione come un fardello insostenibile.
Tale solitudine causa un crollo psicofisico. Alcune ricerche condotte nelle carceri degli Stati Uniti hanno messo in luce che la carenza di legami intimi e di relazioni sociali portano il detenuto ad allontanarsi dalla sua famiglia e a sposare il modus vivendi che trova all’interno del sistema penitenziario. Per questo i colloqui con la famiglia dovrebbero avere un ruolo di primaria importanza, rappresentando non solo l’unico legame con il mondo esterno ma anche un baluardo dalla devianza nonché la possibilità di tenere in vita la speranza per un futuro migliore una volta scontata la pena.
Nella realtà, però, gli incontri con i familiari sono frettolosi, avvengono in ambienti angusti, rumorosi e affollati, è proibito qualsiasi contatto di tipo fisico, come una carezza o un bacio, e tutto si svolge davanti agli occhi vigili delle guardie, dunque senza un minimo di intimità familiare. Alla fine dell’incontro, il detenuto sta peggio: ha potuto ritrovare coloro che ama, ma non è riuscito ad entrare in contatto con gli stessi.
«DISAGI PERSISTENTI»
«La privazione dell’affettività in carcere è la mutilazione per antonomasia. Qualsiasi movimento spontaneo che tragga origine dal cuore, quando viene bloccato, equivale ad un’amputazione, persino l’atto di fare una carezza. Se durante i colloqui con i familiari dai un bacio a tua moglie, subito la guardia bussa sul vetro, così si insinua in te l’idea che tu sia una persona da non rispettare. Questa totale esclusione di contatto fisico mi ha creato numerosi disagi, anche fuori dal carcere, dove ho continuato a lungo a non sentirmi libero di esprimere la mia tenerezza. Ma chi ne ha sofferto di più è stata mia figlia. È stata lei a subire il dramma di una genitorialità monca. Mi disegnava senza gambe, perché così mi vedeva durante le visite, eravamo separati da un muro e da un vetro e ci parlavamo attraverso un microfono. Abbiamo dovuto costruire con pazienza un nuovo rapporto che includesse abbracci, carezze, baci, gesti fondamentali, che più delle parole comunicano amore e fiducia», ci racconta Fulvio Rizzo, ex detenuto in regime di 41 bis, oggi imprenditore e ristoratore di successo. «L’unico contatto possibile per noi detenuti del carcere di massima sicurezza era stringerci la mano ogni mattina durante l’ora d’aria. Non appena si scendeva in cortile allora ci si abbracciava, come se non ci si vedesse da tutta una vita. Questo ci dava sollievo. Ed era un trauma quando all’improvviso un amico veniva trasferito e sapevi che non lo avresti rivisto mai più. Per me era una sorta di funerale bianco», spiega Rizzo.
Anche la proibizione della sessualità, quindi di una esigenza fondamentale dell’individuo, quasi come il bere ed il mangiare, è a tutti gli effetti una vera e propria tortura, che mortifica e degrada l’essere umano, provocando anche danni biologici.
Secondo medici e psicologi, la mancanza di rapporti sessuali, così come quella di semplici carezze e di contatto fisico, è produttiva di numerose conseguenze negative sia a livello fisico che emotivo: disturbi del sonno, aggressività, depressione, stress, sbalzi d’umore, insicurezza, ansia. Le carezze, invece, innalzano il livello di ossitocina, ormone del benessere, migliorano la circolazione, aumentano le difese immunitarie ed alleviano la sofferenza fisica.
La negazione del contatto fisico ha effetti nocivi anche sulla famiglia del detenuto, che piano piano si disgrega. Mogli, fidanzate, compagne, figli, si trovano a dovere scontare a loro volta una pena, a subire loro malgrado un’astinenza forzata, che a lungo andare sfinisce e demoralizza. Ecco che, alla fine, al detenuto è stato tolto davvero tutto, persino i suoi affetti. Spogliare di tutto l’essere umano, disumanizzandolo, non è affatto rieducativo, semmai è un’operazione utile solo per fabbricare bestie incattivite ed incapaci di vivere poi nella società.
CORPO E PSICHE
Eppure lo Stato appare più interessato a mettere in gabbia che a redimere.
Molti atti sovranazionali affermano la necessità di riconoscere ai detenuti il diritto all’affettività e alla sessualità, diritto ritenuto inviolabile sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sia dalla nostra Costituzione. Inoltre, negli altri Stati europei tale diritto è riconosciuto e tutelato, non solo perché affettività e sessualità sono elementi fondamentali della personalità, la cui proibizione provoca danni alla salute del corpo e quella della psiche, ma anche perché garantire al reo la possibilità di esprimere la propria affettività anche nell’ambiente carcerario rappresenta uno strumento utile nel trattamento di recupero.
All’interno del disegno di legge sulla riforma del sistema penitenziario, approvato in via definitiva 14 giugno scorso, si fa menzione della necessità da parte dell’ordinamento italiano di adeguarsi alla normativa internazionale e comunitaria relativa all’inserimento dell’affettività e della sessualità all’interno degli istituti carcerari. Resta ancora tragicamente escluso il regime del 41 bis. Ora bisognerà decidere come fare entrare l’affettività in carcere senza che questo leda le esigenze di ordine e sicurezza. Mutuando il modello spagnolo, si è pensato di creare unità abitative appositamente attrezzate, dove il detenuto possa incontrare il partner e/o i familiari per un lasso di tempo che dovrebbe andare dalle 4 alle 6 ore.
«Una compressione anche della sfera affettiva finisce con l’esacerbare ancora di più frustrazione e devianza. Dando la possibilità al detenuto di mantenere il contatto fisico con coloro che ama si produrrebbero effetti positivi: in primis, una umanizzazione della pena, la quale altrimenti diventa restrizione ottusa che non tiene conto delle spinte primarie dell’individuo; in secondo luogo, un minore abbrutimento del soggetto, il quale potrebbe tirare fuori la parte migliore di se stesso. Dunque, l’affettuosità in carcere giova al compimento della finalità rieducativa. Di contro, la totale privazione conduce ad un pericoloso desiderio di riscatto e di rivalsa nei confronti della società», spiega Agostino Siviglia, garante dei diritti dei detenuti del comune di Reggio Calabria, nonché membro dei tavoli ministeriali degli stati generali dell’esecuzione penale deputati alla stesura di proposte di riforma dell’ordinamento penitenziario.