Il Messaggero, 15 luglio 2017
Quel delitto diabolico che segnò la Dolce vita
La funzione della giustizia penale, dicevano i romani, è duplice: impunitum non relinqui facinus, innocentem non condemnari. Cioè, non lasciare impunito il delitto, e non condannare l’innocente. È una bella frase, ma contiene una verità scomoda e dolorosa: che l’impresa enunciata è assai difficile quando devi giudicare un imputato, e lo è ancora di più quando devi giudicarne due o tre. Facciamo un esempio. In una stanza chiusa sono a tavola tredici persone. Improvvisamente la luce si spegne, e quando si riaccende troviamo un ospite pugnalato. Abbiamo così una vittima, un sicuro assassino, e undici probabili innocenti. Dico probabili perché, come nel noto romanzo di Agatha Christie, potrebbero anche essere stati tutti d’accordo. Ebbene, se noi volessimo privilegiare la prima parte del citato motto latino, potremmo incatenarli tutti e dodici: così saremmo sicuri che il delitto non resterebbe impunito. Se invece vogliamo evitare la condanna anche di un solo innocente, li assolviamo in blocco, e stiamo tranquilli. L’abilità dell’investigatore, consiste, naturalmente, nel trovare il vero e solo responsabile. Ma se questo non è possibile, la scelta del legislatore, in tutti i paesi civili, è obbligata. Meglio un colpevole fuori che un innocente dentro.
Questo principio ha ispirato non solo centinaia di eruditi trattati, ma anche libri e film. E in Italia ha avuto un’applicazione famosa e per certi aspetti sorprendente. Quella del caso Bebawi.
Tutto iniziò il 18 Gennaio 1964 con la scoperta del cadavere di Farouk Courbagi, un ventisettenne egiziano, donnaiolo ricco e gaudente. Il corpo giaceva in un appartamento di Roma, vicino a via Veneto, ed era crivellato di colpi di pistola. Il volto era stato sfigurato dal vetriolo e la morte risaliva a un paio di giorni prima. Le indagini sembrarono facili. Si scoprì che il dongiovanni aveva avuto una relazione con Claire Ghobrial, fascinosa moglie di Youssef Bebawi, anche lui ricco egiziano. La coppia era arrivata a Roma dalla Svizzera, dove viveva,e si era fermata qualche ora in una pensione poco lontana dal luogo dell’omicidio. Poi i due erano partiti per la Grecia. La polizia italiana telegrafò ad Atene. I due furono individuati, interrogati e, davanti a quella che sembrava una prova evidente, rispediti in Italia senza indugio. E qui cominciò la loro sorprendente avventura giudiziaria.
In teoria, la coppia diabolica non rischiava nemmeno tanto. A quell’epoca il nostro codice prevedeva il delitto d’onore, e comminava pene irrisorie al marito che avesse ucciso l’amante della moglie. Se Youssef avesse confessato di aver agito «nello stato d’ira derivante dall’illegittima relazione carnale» se la sarebbe cavata con poco. E questa fu, pare, la strategia che i difensori gli consigliarono davanti all’evidenza della prova. Ma i due scelsero un’altra strada, che al momento sconcertò (o sembrò sconcertare) anche principi del foro come Giovanni Leone e Giuliano Vassalli, destinati ad assumere in seguito le più alte cariche politiche, e che all’epoca patrocinarono i due davanti alla Corte d’Assise. INFEROCITO
Claire disse che ad uccider Farouk era stato il marito, geloso e inferocito per il tradimento. Youssef replicò che era stata la moglie, abbandonata dal volubile amante. La difesa di lei sostenne che i colpi erano stati sparati da una mano ferma, e che Bebawi era un buon tiratore. Quella di lui rispose che lo sfregio col vetriolo era un atto squisitamente femminile. E così via, per centoquaranta udienze, due anni in tutto.
I due imputati non parlavano l’italiano. Anni dopo si scoprì che Claire lo parlava benissimo, e finse il contrario per complicare le cose. In effetti le cose si complicarono fino al grottesco. Youssef si esprimeva in francese, ma quando riferiva i discorsi della moglie li riportava in inglese. Gli interpreti si confusero spesso, e dovettero essere corretti dai difensori e persino dai giudici. Sfilarono 120 testimoni, con il solito contorno di vallette televisive e personaggi improbabili. Claire sibilò contumelie contro l’amante del marito coimputato – che forse non aveva invocato il delitto d’onore proprio perché di onore ne aveva ben poco – e svenne con grazia.
STILE
Oriana Fallaci, sull’Europeo, strapazzò secondo il suo stile questa babele indecorosa. I cronisti giudiziari più esperti, d’altro canto, stigmatizzarono le deficienze delle indagini e dell’istruttoria. Forse perché la soluzione, al momento, era sembrata evidente, non erano state raccolte subito, con la necessaria accuratezza, le prove più elementari. Un errore che si sarebbe ripetuto, quaranta anni dopo, nel caso di Cogne. Alla fine il Prof Sotgiu ( che aveva sostituito Leone) e Vassalli conversero su un punto: il colpevole era certamente uno dei due imputati: ma quale? Impossibile determinarlo al di là di ogni ragionevole dubbio. La Corte d’Assise, presieduta dallo stesso Dr. La Bua che qualche tempo prima aveva inflitto due ergastoli nel caso Fenaroli, stavoltà esitò: e nel dubbio assolse entrambi per insufficienza di prove. Il pubblico applaudì, Sotgiu si esibì sui rotocalchi, esultante accanto all’elegantissima cliente che comunque, per prudenza, se la filò poco dopo, come aveva fatto il marito. Il mondo dell’avvocatura (con qualche voce incredula e dissidente) manifestò soddisfazione per la riaffermazione del principio latino che abbiamo citato all’inizio. Un principio che però fu rovesciato due anni dopo, quando in appello i due furono condannati a ventidue anni di reclusione per concorso in omicidio. La Cassazione confermò, e la sentenza divenne definitiva. Ma né Youssef ne Claire furono estradati per scontare la pena: divorziarono, e di loro non si ebbe più notizia.