il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2017
La guerra che verrà alla fine del Califfo
Tutti mettono in conto una nuova guerra: ma quale? La guerra curda per l’indipendenza, la guerra israeliana per fermare l’Iran, la guerra scita-sunnita per il Medio Oriente? Oppure la guerra che contiene queste ed altre guerre, la Grande Guerra musulmana dal Golfo Persico al nord Africa? Un agitarsi di diplomazie non è riuscito a produrre il compromesso capace di risolvere i conflitti che si intersecano nell’epicentro della crisi, il campo di battaglia tra la Siria e l’Iraq, lì dove si sta dissolvendo il Califfato dell’Isis. Quel che è peggio, mancano perfino lo strumento per un negoziato globale – una grande Conferenza di pace, per esempio – e una legalità condivisa, in grado di proteggere confini e minoranze.
Così la guerra che verrà si annuncia fuori dalle regole. Arriverà col passo sghembo con cui avanza l’Angelo della Storia, che volge le spalle al futuro verso cui dirige perché non riesce a distogliere lo sguardo da un passato ingombro di rovine. Sarà nuova e antica. Antichi sono i progetti geopolitici, mai del tutto abbandonati nel corso del tempo, che d’improvviso tornano d’attualità.
I curdi vedono all’orizzonte quel Kurdistan indipendente promesso dagli articoli 62, 63 e 64 del trattato di Sevres (1920). Il nazionalismo turco adocchia Mosul, persa quando i britannici convinsero Ataturk a cederla (1923). Per mezzo di milizie sciite l’Iran calcola di riaffacciarsi nel Mediterraneo, come al tempo della Persia di Dario, 2.500 anni fa.
I generali egiziani guardano alla libica Bengasi (e ai pozzi di petrolio limitrofi) ricordando quando, nel 1976, Sadat li mandò ad occupare un pezzo di Cirenaica, salvo poi cedere alle pressioni internazionali e ordinare la ritirata. E la destra israeliana si domanda se non sia arrivato finalmente il momento di annettersi il 60% del West Bank, la cosiddetta Area C, che dopotutto è un pezzo di Eretz Yisrael, l’Israele promessa da Yahweh alle tribù di Mosè e di Giosuè. Dio lo vuole, e anche la patria, e né l’uno né l’altra si sentirebbe disonorato se chi intende glorificarli ricorresse al metodo tradizionale – deportare popolazioni (nel caso: arabi e turcomanni via da Kirkuk, curdi da Mosul, cristiani da Ninive, sunniti dalla ‘mezzaluna sciita’, palestinesi dal West Bank).
Allo stesso tempo la guerra in gestazione potrebbe configurarsi come un cortocircuito temporale, sul genere del ritorno al futuro proposto per l’Afghanistan dal più influente consigliere strategico di Trump, Steve Bannon. Secondo Bannon gli Usa dovrebbero ritirare le truppe e sostituirle con migliaia di contractors, ovvero guerrieri a contratto. Che è un modo per riattualizzare i mai dimenticati Lanzichenecchi, compagnia militare privata senza dubbio efficace e meno impegnativa di un esercito nazionale.
Si tratterebbe di ammodernare il metodo in uso adesso in Medio Oriente, dove gli Stati si combattono soprattutto per procura, attraverso milizie create allo scopo. Tanto varrebbe giocare a carte scoperte e razionalizzare il business dei combattenti a pagamento, così da ovviare ad una controindicazione: i miliziani intuiscono nella pace la premessa della disoccupazione e si mettono d’impegno per tenere accese le braci del conflitto. Per neutralizzarli in genere li si appioppa al governo locale nel ruolo di poliziotti o militari, ma di solito gli stipendi sono troppo bassi per scoraggiarli dal vessare la popolazione. Metterli sul mercato, magari su eBay (“Offresi battaglione di contras, vasta esperienza”), permetterebbe di riutilizzarli nelle guerre successive, risparmiando la spesa per formare nuova manodopera.
Se tutto questo vi pare surreale, sappiate che l’influente consigliere di Trump ne ha seriamente discusso con il ministro della Difesa Jim Mattis, chiamato “Cane pazzo” dai subordinati. Essendo questa la gente da cui dipende il futuro del Medio Oriente, non può finire che male.
Male fino a che punto? Molto male, se la guerra all’orizzonte facesse deflagrare lo scontro da cui origina la grande crisi araba. C’è un vecchio ordine che non vuole farsi da parte malgrado sia superato dalla storia. Teste coronate, dittatori in divisa, generali dello spionaggio; e il vasto stuolo di beneficiati – imprenditori, burocrazie, polizie, clientele, parentado. Si reggono sulle camere di tortura e amministrano lo stato come fosse cosa loro. Con tali sistemi producono per reazione più terrorismo di quanto probabilmente riescano a produrre gli imam più radicali. Ma questo per loro è un vantaggio, perché combattendo il terrorismo che producono si accreditano come “filo-occidentali”: e così noi li reputiamo. Ora però questi regimi annaspano, fiaccati da crisi economiche e impauriti dai brontolii che salgono dalla grande bestia muta, le masse arabe. Sanno che se parte la sollevazione, saranno disarcionati, nella migliore delle ipotesi dai gruppi di potere favorevoli ad una transizione, nella peggiore da una rivoluzione non più delicata e generosa come furono sei anni fa le “primavere arabe” (una bolgia nel vecchio stile europeo – terrore, decapitazioni, “bevitori di sangue”, eccetera).
Ora, una guerra che unisca la nazione è sempre un antidoto efficace alla rivoluzione, ma a patto che l’opinione pubblica la condivida e la vittoria sia l’esito finale; altrimenti diventa l’opposto, un detonatore. Questo rischio sembra ben presente alla compagnia dei più pericolanti (Egitto e petro-monarchie del Golfo), che da giugno applica una strategia preventiva per sedare la popolazione. Prevede la messa al bando dell’informazione indipendente, considerata fonte di pericolosa eccitazione. L’ultimo atto è stata la chiusura di al Wasan, uno dei sette giornali del Bahrein, l’unico che non obbedisca all’emiro. Il motivo: aveva criticato il modo in cui il re del Marocco affronta la rivolta nel Rif. Tra Marocco e Bahrein corre la distanza che c’è tra Italia e Pakistan, ma l’emiro ha voluto affermare che è sedizione mancare di rispetto a sovrani sunniti.
Il mondo è diventato piccolo, le distanze relative: in questo l’emiro ha ragione. E anche la guerra futura sarà a noi più vicina di quanto dica la geografia. Oggi il Medio Oriente finisce proprio davanti alle nostre coste, in Libia, lì dove popolazioni arabe in fuga cercheranno la via di fuga per l’Europa e i reduci dell’Isis un riparo.
Inoltre la linea che frattura il Medio Oriente sunnita (di qua la compagnia dei regimi pericolanti, di là i regimi ‘sediziosi’ che appoggiano l’islam politico, Turchia e Qatar) spacca anche la Libia. Nell’est comandano gli Emirati e l’Egitto attraverso un loro protetto libico, il generale Haftar. A ovest provano a resistergli varie milizie, alcune armate dalla Turchia e dal Qatar, altre fedeli al premier Fayez al Serraj, formalmente riconosciuto dalle Nazioni Unite ma fino a ieri sostenuto solo dal governo italiano. Però negli ultimi giorni il ministro degi Interni Marco Minniti ha giocato abilmente sull’emergenza-immigrazione, costringendo l’Unione europea ad attribuire ad al Serraj gli strumenti minimi per governare e a Roma i mezzi per costruirgli intorno una rete di relazioni politiche. Così una cattiva politica sull’immigrazione (in quanto evita la questione centrale, il destino di 150 mila migranti intrappolati in Libia) è diventata un’intelligente iniziativa di politica estera.