la Repubblica, 15 luglio 2017
Federer in finale di Wimbledon, un’autostrada verso il titolo record. Il commento di Gianni Clerici
Credo di poter anticipare una notizia sensazionale. Roger Federer per il quale non so più inventare sinonimi, ha vinto il suo 8° Wimbledon, battendo in semifinale Berdych per 7-6, 7-6, 6-4 e nella finale di domani Cilic, per un punteggio del quale non sono ancora stato informato. Infatti, al di là di incresciosi incidenti che mi auguro non si verifichino, il futuro avversario di Roger non è in possesso di un colpo indispensabile per insidiare Sua Federarità, e cioè un rovescio di livello degno di una finale a Wimbledon. Privo del conforto di questo colpo dovrebbe riuscire quantomeno una trentina di aces, e una somma non molto inferiore di diritti e volè vincenti. Sono, quindi, quasi sicuro di non rischiare il mio umile posto e di non dover percorrere il cammino verso Lourdes che toccò al mio povero amico Brera il giorno in cui giurò che l’Italia del calcio non avrebbe perso dalla Corea. Il match di oggi potrebbe apparire al lettore più incerto di quanto sia stato in realtà. Ci sono, a favore di Sua Maestà Roger, ben due tiebreak, e questa invenzione del mio amico Jimmy Van Alen ha, tra i suoi aspetti, anche quello di un’accentuazione della fortuna. Sul primo dei due ecco Roger che, sul 4-2, fallisce un facile diritto, e Berdych prontamente lo imita. Sul 2° Berdych risale da un drammatico 1-5 a 3-5, ma Federer colpisce maluccio una volleina che gli porta il punto. Non sono stati certo i due tiebreak a scoraggiare Berdych, forse quanto i precedenti contro il Genio Contemporaneo, terminati con 18 sconfitte contro 6 vittorie. Così come non saranno le 6 vittorie a 1 contro Cilic, con l’importante ricordo della semi a New York che gli permise di vincere quel torneo. Ma mi pare di terminare con sua Sua Federarità e di occuparmi dell’altra semi. Si è trattato, per me, di una sorta di super 1° turno che l’amico Stefano ha definito «un match alla Moravia, la Noia (in campo), Gli Indifferenti (fuori)». È stata, in realtà, questa partita, messa in campo per ragioni che non appaiano casuali: le teste di serie, il sorteggio, la forma dei tennisti, l’erba e, forse, il destino. Il vincitore, Cilic, era parso vicino alla glorificazione, pur provenendo da Medjugorje, nel 2014, quando il sorteggio l’aveva portato sull’Arthur Ashe, contro un giapponesino che, secondo il suo Maestro Bollettieri «era destinato a diventare Campione del Mondo». In quell’occasione, come nel resto dei match dello US Open, Cilic aveva basato le sue performances su un binomio servizio-diritto a tratti irresistibile. Nessuno, tra gli avversari, era riuscito a sfuggire alla tattica che il grande Jack Kramer aveva chiamato Service and Forehand, simile allo stile da erba definito serve-and-volley. Questo tipo di gioco era stato in seguito praticato da grandi tipo Pancho Gonzalez, o Jack Schroeder. Il caso Cilic è certo stato meno importante, e temo lo rimarrà, perché il croato manca di un rovescio a una mano. Oggi quella deficienza a sinistra lo ha spinto oltre il nervosismo contro un tipo rozzo come Querrey, stesso stile ma minor regolarità. Nel 1° set Cilic aveva perduto soli 4 punti in 6 turni di battuta ma, giunto al tiebreak, ha servito tanto mediocremente da lasciare il set all’avversario. Di lì è cominciata una rincorsa che solo la modestia dell’americano non è riuscito ad arginare. Il 3° e il 4° son finiti ai 7 games solo per reciproche insufficienze: è stato, insomma, un match che è sembrato appartenere a un torneo diverso dall’altra semifinale.