Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  luglio 14 Venerdì calendario

Alberto Muraglia: «Timbravo il cartellino in mutande adesso riparo pentole e motorini»

SANREMO Adesso Alberto ripara cose. Ferri da stiro, pentole. Motorini, asciugacapelli, forni elettrici, rubinetti. Ripara cose, e prova a riparare una persona che si chiama Alberto.
«Lei sa cos’è il Widia?». Alberto Muraglia è il vigile urbano che timbrava il cartellino in mutande. Arrestato, licenziato, sfrattato. Un’icona, a suo modo. «Devi ricominciare la vita a 54 anni senza casa e senza lavoro, con una moglie, tre figli e il solo aiuto delle tue mani. Svegliarsi tutte le sante notti tra le due e le quattro e restare con gli occhi sbarrati al soffitto. Ero un vigile urbano al mercato annonario di Sanremo. Casa e ufficio, per così dire, coincidevano. Quella domenica timbrai in mutande a casa mia mentre lavoravo, per comodità, ero in servizio dalle cinque. Alla fine anche il giudice capirà».
Una strada stretta, uno stanzone che è negozio e laboratorio, ma anche una bolla sospesa sul mondo. Punte di trapano, cavi, morse, pinze, frese, cacciaviti. La benedetta potenza degli oggetti che ci tengono saldi qui, su questa terra. Attrezzi: è una parola bellissima. «Il Widia, vede, è il materiale che si usa per le punte delle trivelle, ma anche per i dischi delle troncatrici da legno. Quei dischi lì». Alberto li indica nel mucchio a terra. «Carburo di tungsteno sinterizzato. Io li affilo, modestamente. E affilo anche i coltelli di quattordici macellerie di Sanremo che si fidano di me. Molti clienti che mi portano le loro cose rotte sanno tutto della mia storia, con qualcuno si scherza, tutti comunque mi stimano. Perché io non gli faccio buttare via niente».
Le parole escono a fiotti, inarrestabili, mentre gli occhi di Alberto si accendono attraversati da minuscole venuzze rosse. Un’enorme chiave inglese è l’insegna del negozio. Il bancone è messo di traverso appena si entra, coperto di carte. Un laboratorio è un universo. Alberto si china, sparisce dietro la catasta e ne riemerge con una cartellina in mano. «Ho conservato tutto, qui dentro ci sono anche le copie delle due multe, dico due, che secondo loro non quadrano, peccato che i codici non corrispondano e le abbia scritte qualcun altro». Non è solo il dossier della difesa, è anche la storia professionale di un uomo che sembra, sembrava, sembrerebbe indifendibile. Ma occhio alle apparenze. «Guardi qui». Alberto accende il computer e sul salvaschermo appare la fotografia di un vigile urbano sotto il diluvio, immobile come una guardia di Buckingham Palace. «Era la Milano-Sanremo, facevo servizio nel giorno in cui mi contestano un’assenza. Mi guardi: le sembro assente?».
Tira fuori un volantino. C’è scritto: «Perché buttare il tuo elettrodomestico senza prima farti fare un preventivo gratuito per ripararlo?». Gratuito è scritto in neretto, siamo pur sempre in Liguria. «Io lucido i metalli, sistemo tapparelle, naturalmente sostituisco e aggiusto serrature». La porta del negozio non sta mai ferma. «Sono pieno di lavoro. Se potessi star sereno, se riuscissi a rimanere qui otto o dieci ore guadagnerei più di prima: un vigile prende 1250 euro al mese. Però il cervello va in battaglia, resistere è una faccenda per cuori forti e io credo di averlo, nei limiti». Cassetti che si aprono e si chiudono, agende, appunti, la partita Iva, verbali. Una montagna di carta preme dall’alto, il lentissimo calendario della giustizia fa il resto. «So di essere il caso più emblematico di tutta quella storia, e so che verrò trattato per ultimo. Ma so anche di non essere affatto un furbetto del cartellino: ho lavorato per 33 anni con addosso la divisa e ho fatto meno di cento giorni di mutua, all’alba ero sempre al mercato e qui lo sanno tutti. Mia moglie Adriana non è mai andata a comprare nemmeno un pomodoro in quel mercato, proprio per evitare chiacchiere». Lei è maestra d’asilo part-time. «Seicento euro al mese». La casa e il negozio coincidono: «Mio cugino Enrico e sua moglie Maura mi hanno dato questi due locali in comodato d’uso gratuito, ci vogliono bene e si fidano di me. Qui lavoro e abitiamo, così ho potuto ricominciare». Cervello in battaglia significa fare la conta dei pensieri brutti. «E quelli vengono, eccome. Otto di noi indagati su trentatré hanno tentato il suicidio. Io sono contento di avere preso il Lexotan non più di sei o sette volte. Quelle foto mi hanno messo alla berlina, però non lo merito. Tre mesi ai domiciliari sono una cosa da impazzire e infatti impazzivo. Qualcuno dei miei ex colleghi del Comune a volte passa di qui, facciamo quattro chiacchiere, ben pochi sono riusciti a ricominciare o a darsi una ragione, c’è chi va a mangiare alla Caritas. Perché si fa in fretta a sorridere e giudicare, in Italia siamo garantisti solo a parole. Quasi tutti forcaioli, invece».
Forse il segreto è non buttare via niente, delle cose e di sé. Vecchie fodere, una cucitrice per risistemarle. Pezzi di legno. «È teak, con questo si fanno gli scalini delle barche». Il blocco centrale di un’affettatrice, qualche moka di varie dimensioni. «Il magazzino di oggetti che sembrano perduti o inutili può diventare una miniera d’oro. Io aggiusto e invento, ho preso questa dote da mio padre che faceva il camionista, gli attrezzi li avevo anche prima, per hobby. E poi ci sono i tutorial, oggi con internet è tutto più facile». Alberto solleva una pentola. «Aveva i manici rotti e costavano 20 euro. Io ci ho lavorato due ore per 15 euro, adesso la pentola è come nuova e la signora ha risparmiato». Non fa una grinza. «Per principio non rifiuto nessun lavoro: provarci sempre è il mio motto. E i pezzi di ricambio li compro su internet». Alberto afferra un aggeggio nero, un interruttore. «Da listino costerebbe 4 euro e 50, io l’ho preso a settanta centesimi».
Limatura di ferro sul pavimento, un poco di sole obliquo nei vetri del negozio. Passano persone e pensieri. «Prima voglio riabilitarmi, poi deciderò della mia vita. Adesso però devo fare il sugo per mia figlia Aurora che esce da scuola». Alberto Muraglia strizza l’occhio. «Venga, le mostro». Spinge uno specchio, lo sposta appena e dietro c’è una stanza minuscola come quella di Barbie. «Adesso viviamo qui e non ci manca niente». L’ultimo sorriso di Alberto è leggerissimo. «Adesso, davvero, posso andare a lavorare in mutande».