la Repubblica, 14 luglio 2017
In morte di Liu Xiaobo
PECHINO Adesso l’America chiede che liberino almeno Liu Xia, la moglie agli arresti domiciliari da 7 anni senza nessuna incriminazione. Adesso anche Rex Tillerson, il segretario di Stato, alza la voce: «Piango con i cinesi e il resto del mondo la perdita del premio Nobel per la pace Liu Xiaobo». Ma perché l’America e il resto del mondo hanno lasciato parlare fino alla fine mille portavoce? Perché nessun leader occidentale ha chiesto direttamente di liberare il dissidente più famoso per lasciarlo morire, come lui implorava, all’estero?
Sul corpo di Liu Xiaobo, morto a 61 anni all’ospedale di Shenyang, dov’era stato trasferito in libertà condizionale dal carcere della stessa città, prigioniero dal 2009, s’è giocata l’ultima battaglia di un paese ormai così aperto al mondo che il presidente Xi Jinping si offre a ragione di guidarlo sulla via della globalizzazione: ma come si fa a guidare con un cadavere nel bagagliaio? Liu Xiaobo era l’eroe di Tienanmen, il prof tornato quaggiù a Pechino trent’anni fa dagli Usa per stare accanto ai suoi ragazzi. Dicono che ne salvò non si sa quanti mercanteggiando con i militari grazie al suo sciopero della fame. Da allora, da quel massacro scomparso dai libri di storia come in queste ore è scomparsa dai media l’agonia del Nobel, Liu il “Cavallo Nero”, il prof iconoclasta che ne aveva per tutti e per tutto, si tuffò nella militanza: stando sempre bene attento a non caricare più di tanto, a non irritare più di tanto, a non provocare più di tanto.
Diceva che il cambiamento può arrivare solo dalla società, non dall’alto del partito unico irriformabile, ma solo allargando quegli spazi di libertà che si aprivano nella Cina del dopo Mao, post-totalitaria come la chiamava lui.
Post che? “Liu ha vissuto in un‘era in cui la Cina ha visto la crescita più rapida nella storia recente” scrive adesso il Global Times che traduce in inglese il pensiero del partito “ma ha cercato di mettersi contro alla maggioranza della società con l’aiuto dell’Occidente. È questo che ha determinato la sua tragica fine”. Chiaro no? Nella peggiore tradizione del totalitarismo comunista il povero Liu Xiaobo s’è suicidato, e con il piccolo aiuto dei nemici del socialismo: è questo che ha determinato la tragica fine, mica i quattro arresti, mica i tre anni nel campo di lavoro, mica l’epatite non curata in carcere, mica il tumore al fegato non diagnosticato con la velocità che ha permesso invece al detenuto Bo Xilai, l’ex potentissimo un tempo rivale di Xi, di godere negli stessi giorni della stessa libertà condizionale, ma per sconfiggere il tumore preso ancora allo stato nascente. «I miei amici e io siamo scioccati e in lutto» dice adesso a Repubblica Perry Link, il prof emerito di Princeton che ha tradotto le opere di Liu a cominciare da Carta 08, il manifesto sottoscritto da migliaia di persone che prima lo mandò in galera, nel 2009, per aver chiesto più democrazia e la fine del partito unico, e l’anno dopo gli fece vincere il Nobel, dove la sua assenza forzata fu sottolineata dalla sedia rimasta vuota. «Emotivamente scioccati» dice Perry «ma non sorpresi se si guarda alla vicenda da un punto di vista razionale: avevamo capito tutti che cosa stava per succedere».
L’avevamo capito tutti ma chi poteva muoversi non l’ha fatto, come accusa il dissidente Ai Weiwei. Ieri notte sono scesi in piazza a protestare i cinesi nell’unico posto in cui cinesi possono ancora protestare, Hong Kong, guidati dai ragazzi di Joshua Wong. E certo, la presidente del comitato dei Nobel, Berit Reiss-Andersen, è insorta: «Il governo cinese è responsabile per la sua morte prematura». Anche l’Unione europea ha protestato. Ma adesso? I cinesi insistono che è una faccenda che riguarda loro e basta: come se i diritti dell’uomo potessero essere declinati, anche quelli, “con caratteristiche cinesi”. La Cina, avverte finalmente l’agenzia giornalistica di stato Xinhua quando a Pechino sono ormai le quattro del mattino di venerdì, chiede agli altri paesi di rispettare la sua sovranità giudiziaria, e di non immischiarsi negli affari interni con il caso di Liu Xiaobo. Traduzione: non disturbate il conducente. E soprattutto, giù le mani dal suo bagagliaio.