14 luglio 2017
In morte di Liu Xiaobo, Nobel dissidente
Guido Santevecchi per il Corriere della Sera
«Liu Xiaobo è morto di cancro al fegato all’età di 61 anni». Lo ha detto così la stampa cinese ieri notte, senza ricordare che Liu Xiaobo era il Premio Nobel per la Pace 2010: un riconoscimento considerato da Pechino come una provocazione internazionale, un’indebita ingerenza nei propri affari interni. Perché nel 2010 il letterato Liu era già in prigione, condannato a 11 anni per «attività tese a sovvertire l’ordine dello Stato». La sua colpa: aver scritto «Charter 2008», un documento politico nel quale invocava multipartitismo e democrazia per la Cina, sottoscritto da centinaia di intellettuali.
Le sue ultime settimane sono state tristissime, controllate fino all’estremo istante dalle autorità. A maggio, dopo otto anni di detenzione, gli era stato diagnosticato un tumore al fegato in stato ormai terminale. Il 26 giugno lo avevano trasferito in un ospedale della città di Shenyang, vicina alla prigione, nella provincia nordorientale di Liaoning.
«Libertà condizionale per motivi medici», avevano annunciato le autorità che volevano evitare l’imbarazzo della morte in cella.
In realtà, Liu non era libero, perché se lo fosse stato nessuno gli avrebbe potuto negare di andare all’estero per tentare un ultimo ciclo di cure e ritardare la morte.
Se lo fosse stato davvero, lo avrebbero fatto partire con la moglie, dandogli almeno la consolazione di aver salvato lei dalla repressione e da arresti domiciliari senza alcuna imputazione, solo per essere la compagna fedele di un dissidente. Invece il sistema è stato inflessibile, ha ripetuto che Liu era solo un condannato, un affare giudiziario interno. E poi, per negare comunque il trasferimento all’estero, che avrebbe significato la libertà prima della morte, è cominciato uno stillicidio di informazioni, foto e filmati diffusi da fonti anonime, ma sicuramente legate al sistema carcerario. Prima un video nel quale Liu veniva assistito da personale medico e ringraziava per le cure. Poi annunci sempre più drammatici sul deterioramento delle condizioni e l’impossibilità di ogni trasferimento. Ancora, la convocazione per un consulto di due medici occidentali, un americano e un tedesco, che dopo la visita avevano elogiato il lavoro dei colleghi: tutto filmato per dimostrare la correttezza del trattamento. Però, i due medici stranieri avevano osservato che il paziente si sarebbe potuto trasferire, come aveva chiesto, in Germania o negli Stati Uniti.
In questo balletto tragico, le autorità cinesi e la stampa statale hanno continuato a ripetere che non c’era alcun motivo perché dall’estero arrivassero invocazioni: Liu era un semplice caso giudiziario. Ma tutte le informazioni e i filmati diffusi dall’ospedale nel quale era tenuto dimostrano l’esatto contrario: fino all’ultimo respiro il dissidente è stato considerato un pericolo per il potere.
Per la verità, anche dall’Occidente la pressione non ha superato un livello minimo, quel tanto per evitare un silenzio assoluto. Non risulta che la questione del Nobel sia stata sollevata nei colloqui tra i leader mondiali e il presidente cinese Xi Jinping al G20 di Amburgo.
Da Berlino, dopo la partenza di Xi, la cancelliera Merkel ha invocato sommessamente un gesto umanitario; in extremis anche gli Stati Uniti hanno chiesto a Pechino di lasciar partire Liu Xiaobo, per farlo morire libero. Ma non è stato Donald Trump a intervenire, solo una portavoce della Casa Bianca durante un briefing di routine. Ieri sera, dopo la morte, il segretario di Stato Rex Tillerson ha chiesto la liberazione della vedova.
Liu Xiaobo divenne celebre nel 1989: insegnava alla Columbia University di New York, ma tornò a Pechino per la protesta della Tienanmen; si schierò con gli studenti e però li implorò alla fine di ritirarsi per evitare il massacro.
Fu incarcerato una prima volta a due anni. Poi tre anni di campo di rieducazione, dal ’96 al ’99.
Nel 2008 pubblicò «Charter 08», che si ispirava alla «Charta 77» dei dissidenti cecoslovacchi durante l’era sovietica: il letterato cinese chiedeva aperture democratiche, non la fine del governo comunista. Bastò per la dura condanna a 11 anni.
Era in cella quando nel 2010 gli fu assegnato il Nobel e la sua sedia rimase vuota alla cerimonia di consegna.
Se fosse stato libero di tenere il suo discorso, Liu Xiaobo avrebbe potuto leggere qualche brano del suo manifesto politico: «La Cina è una grande nazione, il cui sistema politico continua a produrre disastri sul fronte dei diritti dell’uomo... spero di poter essere l’ultima vittima dell’inquisizione».
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Francesco Radicioni per La Stampa
Tutta la vita di Liu Xiaobo è stata quella di un uomo in rivolta. Intellettuale, attivista democratico e premio Nobel per la Pace. Nel dicembre 2008, quando la polizia va ad arrestarlo per l’ultima volta, Liu sta lavorando a Charta ’08. Solo due giorni dopo sarebbe stato reso pubblico questo manifesto politico che - fin dal nome - trae ispirazione da Charta ’77, il documento dei dissidenti nella Cecoslovacchia sotto l’influenza sovietica. «La Cina deve andare verso un sistema di libertà, di democrazia, di stato di diritto».
Centinaia di accademici e attivisti cinesi hanno firmato il documento in cui si chiede a Pechino di garantire quei diritti che nella Repubblica Popolare rimangono tabù: fine del monopolio politico del Partito Comunista, separazione dei poteri, libertà di espressione e una riforma costituzionale in senso federale. Per le autorità cinesi è troppo. Il giorno di Natale 2009 - al termine di un processo che dura una manciata di ore - Liu Xiaobo viene condannato a 11 anni di carcere con l’accusa di «incitamento alla sovversione dei poteri dello Stato». Nel 2010 il comitato di Oslo assegna a Liu Xiaobo il premio Nobel per la Pace: un riconoscimento per la «lunga e non-violenta battaglia per i diritti umani fondamentali in Cina». L’ira di Pechino si abbatte sul Nobel. Definisce il premio a Liu Xiaobo «un grave errore» e annuncia ripercussioni nelle relazioni con la Norvegia. A monito per le altre capitali europee, i rapporti con Oslo vengono congelati per alcuni anni.
Nonostante gli appelli internazionali, la Cina non consente a Liu Xiaobo di uscire dal carcere neanche per andare a ritirare il premio: alla cerimonia di consegna l’attivista è rappresentato da una sedia vuota. Intanto, a Pechino, finisce agli arresti domiciliari Liu Xia, sua moglie, sebbene nei suoi confronti non siano mai state mosse delle accuse formali.
Le radici dell’attivismo democratico di Liu Xiaobo devono però essere cercate indietro nel tempo. Pechino, metà degli Anni 80. Liu è un giovane docente di letteratura all’Università Normale in un periodo in cui il mondo accademico cinese ribolle di dibattiti e idee. Quel professore è capace d’incantare i ventenni perché parla con audacia e passione di politica, in una Cina da poco uscita dalla Rivoluzione culturale di Mao. È polarizzante. Una volta disse che «le principali guerre combattute dagli Stati Uniti sono tutte eticamente difendibili». Nel conflitto in Medioriente sceglie di stare dalla parte di Israele.
Nella primavera del 1989 Liu sta facendo ricerca a New York, quando a Pechino gli studenti marciano su piazza Tienanmen per chiedere democrazia. Il professore non perde tempo e fa rientro a Pechino per partecipare alle manifestazioni. Dopo l’imposizione della legge marziale, tenta una mediazione in extremis con l’esercito per consentire agli studenti di lasciare la piazza prima che - nella notte tra il 3 e 4 giugno 1989 - scatti la repressione. «Se non fosse stato per Liu e per pochi altri - ricorda la giornalista Gao Yu - quella notte il bagno di sangue avrebbe avuto dimensioni maggiori».
Per il ruolo avuto nella primavera di Pechino, le autorità condannano Liu Xiaobo a quasi due anni di carcere per «propaganda contro-rivoluzionaria». Quando esce di prigione l’Australia gli offre asilo politico. Liu rifiuta di lasciare il Paese, per continuare la sua battaglia per la democrazia in Cina.
È nei circoli degli artisti della Pechino degli Anni 80 che, oltre alla politica, Liu Xiaobo incontra la compagna di tutta una vita. Anche Liu Xia è un’intellettuale: poetessa e con una solida famiglia alle spalle. Nel 1996 vanno a vivere insieme. Pochi mesi dopo per Liu Xiaobo si aprono le porte di un campo di lavoro per alcuni suoi scritti su Taiwan. L’amore tra la poetessa e il «nemico dello Stato» resiste e la coppia si sposa mentre Liu Xiaobo sta scontando questa nuova condanna a tre anni. «Xia è stata provata - fisicamente ed emotivamente - da questi anni trascorsi lontano dal marito e sotto l’invadente presenza della polizia cinese», raccontano gli amici. «Questa è però la vita che Liu Xiaobo ha continuato a scegliere, anche quando la paura e la corsa al denaro riduceva al silenzio un’intera generazione di attivisti democratici in Cina». Il 26 giugno era stato scarcerato per permetterne le cure in ospedale. Nei giorni scorsi Usa e Germania aveva fatto un appello per permettergli di essere curato all’estero, ma Pechino non ha ceduto. Lo avevano anche visitato due dottori stranieri.
La notizia della sua morte ha infiammato i social network. I leader del movimento di Tiananmen hanno duramente condannato il governo cinese: «Spero che il mondo ricordi per sempre come il partito comunista cinese, questo nuovo gruppo nazista, abbia brutalmente torturato a morte Liu Xiaobo», ha scritto su Facebook, uno dei leader del movimento studentesco del 1989, oggi in esilio negli Usa. Anche il Comitato per il Nobel ha puntato il dito contro Pechino: «Il governo cinese ha la pesante responsabilità della morte prematura di Liu». Il segretario di Stato Usa Tillerson ha invece chiesto di liberare la vedova Xia «consentendole di lasciare la Cina, un desiderio che ha già espresso».
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Gianni Riotta per La Stampa
«Io non ho nemici e non odio nessuno» amava dire Liu Xiaobo, premio Nobel cinese per la pace, poeta e critico dissidente, ucciso ieri dal cancro, mentre scontava una pena di undici anni. Liu era considerato il Mandela o l’Havel di Pechino, e il Nobel cecoslovacco s’era personalmente battuto - nell’indifferenza generale - perché il premio andasse finalmente a un dissidente cinese.
Solo un altro laureato dal Nobel per la pace è morto in prigionia, il giornalista socialista Carl von Ossietzky, nel 1938, in una cella nazista. Ma la Germania di Hitler allora era già un Paese isolato e temuto, fuori da ogni organizzazione internazionale. La reputazione della Cina è ben diversa, il presidente Xi Jinping, cosciente del potere straordinario che Pechino ha riacquistato, si muove come elemento di stabilità, non di rottura, dell’equilibrio mondiale. Al vertice di Davos, mentre l’America di Donald Trump si ergeva da bastione isolato di muri e dazi, Xi - ultimo grande leader comunista - si faceva a sorpresa patrono di liberi scambi e commerci internazionali, come scambiando la filosofia di Karl Marx con quella di Adam Smith nel canone del suo poderoso partito.
Pur tenendo viva la tensione con le isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale o al confine con l’India, Xi ha una strategia di lunga durata - quel che manca a Usa ed Europa - per l’Africa, con investimenti e aiuti, con la Banca Asiatica di Sviluppo che Obama sottovalutò ingenuamente, con la ripresa del patto di scambio Tpp nel Pacifico, stracciato a vanvera da Trump, con il piano «One Belt One Road». Varando accanto a una vecchia portaerei ucraina una di ultima generazione e lanciando la flotta d’alto mare che mancava alla Cina dai tempi del leggendario ammiraglio Zheng He, nel XV secolo, Xi è gigante del XXI secolo, nessun leader cinese, dopo Mao, ha avuto tanto potere. Ma, in parallelo alla campagna anticorruzione contro quadri del partito e dell’esercito, Xi non demorde dall’intimidire anticonformisti e dissidenti.
Il movimento che Liu aveva provato a rilanciare, dopo l’abbandono della Columbia University per partecipare alle dimostrazioni filodemocratiche di piazza Tiananmen nel 1989, represse nel sangue, ebbe momenti di gloria solo nel 2008, quando il documento liberale Charta 08 venne sottoscritto da oltre 300 attivisti, dirigenti, intellettuali, perfino quadri del Pcc. Ma la galera, la repressione, le intimidazioni, gli esili lo hanno presto ridotto a poca cosa, flebili voci coraggiose, come in Russia un tempo, incapaci di piegare il regime.
Perché dunque, con tanto zelo, Xi si preoccupa di azzittire un’opposizione isolata e spaventata? La maggior parte dei cinesi è dalla sua parte, a Pechino il commento diffuso sulla morte in catene di Liu è «se l’è voluto lui», e in un recente incontro al Council on Foreign Relations di New York l’artista dissidente Ai Weiwei, reduce dalla prigione, confessava: «I giovani in Cina mi ridono dietro, bella la tua democrazia vero? Ti piace il Carnevale di Brexit e Trump? Cosa posso rispondere?».
L’Occidente non ha alcuna voglia di confrontarsi con Xi sui diritti umani. Ci provò Hillary Clinton, andando a Pechino a dire «i diritti delle donne sono diritti umani», ma prevale, a Washington come a Bruxelles, la spietata realpolitik di Henry Kissinger: la Cina è fulcro del mondo e, tra Putin, l’atomica coreana, crescita anemica e debito pubblico, non possiamo inimicarcela. Liu Xiaobo è dunque morto solo, dimenticato in patria e nel mondo, come Carl von Ossetzky 79 anni fa.
Il ragionamento dei pragmatici non fa una grinza, l’economia pesa più dei valori. Ma proprio quel nome perduto, von Ossetzky, dovrebbe essere da monito, per i leader occidentali e per il presidente Xi, uomo che sa esser saggio. Abbandonare i diritti umani per un vantaggio momentaneo sembra buon senso, ma è un azzardo, la realpolitik 1938 s’è rivelata follia solo un anno dopo. Xi Jinping, leader comunista che teme la diaspora seguita alla caduta del Pcus a Mosca, operi la stessa meditazione: nessuno può, per sempre, reprimere la natura libera degli uomini, salvo seminare zizzania e odio alla fine nefasti. «La libertà di parola è base dei diritti umani, radice della natura umana e madre della verità. Uccidere il diritto di parola insulta i diritti, soffoca la natura umana, azzittisce la verità» diceva inascoltato, oggi, Liu Xiaobo: come altri martiri il domani gli apparterrà.