Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2017
Negli Usa e in Europa le scorte di petrolio iniziano a scendere
Le scorte petrolifere negli Stati Uniti e in Europa stanno finalmente calando. Un fenomeno che, almeno in apparenza sembra dare ragione all’Opec (e agli analisti di molte banche) che si aspettavano di vederlo accadere nella seconda metà dell’anno
La teoria era che le raffinerie, una volta concluse le manutenzioni, avrebbero accelerato i consumi di greggio, attingendo ai serbatoi di stoccaggio, mentre l’arrivo dell’estate nell’emisfero nord avrebbe aumentato anche i consumi di carburante degli automobilisti (oltre che delle centrali a olio dei Paesi mediorientali).
Le statistiche dagli Usa stanno seguendo il copione previsto. La settimana scorsa, secondo i dati diffusi ieri dall’Eia, le raffinerie americane hanno lavorato al 94,5% della capacità e le scorte di greggio sono diminuite di 7,6 milioni di barili: il calo più accentuato da settembre 2016. Nello stesso tempo gli stock di benzine sono comunque riusciti a calare di 1,6 mb.
Sull’altra sponda dell’oceano Atlantico, Euroilstock martedì aveva mostrato un quadro simile: i dati per giugno, riferiti a 15 Paesi Ue più la Norvegia, evidenziano finalmente un calo delle scorte petrolifere, tra greggio e prodotti raffinati, sia su base mensile (-0,2%) che su base annua (-0,7% a 1,15 miliardi di barili).
Tutto secondo i piani, dunque? Il mercato non si sta entusiasmando. Anzi, il petrolio ieri ha addirittura frenato i rialzi dopo i dati Eia, anche se la seduta si è comunque chiusa in positivo, con il Brent a 47,74 $/barile (+0,5%) e il Wti a 45,49 $ (+1%).
In realtà c’è il sospetto che le scorte non vengano davvero “consumate”, ma soltanto spostate altrove, senza dissolvere in modo decisivo quell’eccesso di offerta che da tre anni comprime il prezzo del barile. Le esportazioni – soprattutto americane, ma nel caso dei prodotti raffinati anche europee – sono infatti robuste e in Asia per ora non ci sono indizi che facciano pensare ad un analogo svuotamento degli stoccaggi.
Tra marzo e giugno, osserva Julian Lee, analista di Bloomberg, le scorte petrolifere Usa sono calate di 21 mb, la prima riduzione dal 2000 per quel periodo dell’anno (quando in media salivano di 54 mb). Ma in quei 4 mesi Washington ha esportato 149 mb in più rispetto a marzo-giugno 2016.
L’azione dell’Opec, benché finora molto disciplinata, non sembra in fin dei conti aver avuto l’efficacia sperata. Ed è stata la stessa Organizzazione, con il suo rapporto mensile, a fornire ieri nuovi argomenti a chi dubita della sua capacità di governare il mercato. Nei primi sei mesi dell’anno il gruppo ha estratto in media 700mila barili al giorno in più rispetto al fabbisogno del suo greggio e nel mese di giugno la sua produzione è salita di 393mila bg, a quota 32,6 mbg. Colpa in gran parte di Libia e Nigeria, esentate dai tagli, ma anche l’Arabia Saudita ha sforato per la prima volta il suo tetto produttivo, estraendo 10,07 invece di 10,058 mbg, un incremento di 190mila bg rispetto a maggio (che comunque sembra legato al maggior fabbisogno interno).
Se i volumi resteranno gli stessi, l’Opec continuerà a sovraprodurre anche nel 2018, con un eccesso (secondo le sue stesse stime) di 900mila bg nel primo trimestre, quando aveva previsto di completare l’azione dei tagli. Visto che la concorrenza – a cominciare dallo shale oil americano – non molla, l’obiettivo di riallineare le scorte petrolifere con la media degli ultimi 5 anni non potrà che fallire. A meno che i tagli non vengano ulteriormente prolungati, o quanto meno imposti anche a Libia e Nigeria. Ma l’eventualità per ora sembra remota. Il segretario generale dell’Opec Mohammed Barkindo ieri si è anzi rallegrato del loro recupero di produzione, auspicando soltanto che prosegua «in modo ordinato, senza arrestare in modo significativo il riequilibrio del mercato».
.@SissiBellomo