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 2017  luglio 12 Mercoledì calendario

I dazi di Trump non creano lavoro

In materia di commercio internazionale Trump non sa nemmeno cos’è che non sa. Secondo il sito di informazione Axios, il presidente Usa è «testardamente» deciso a imporre dazi punitivi sulle importazioni di acciaio e forse anche di altri prodotti, nonostante la contrarietà di gran parte del suo esecutivo.
Ma la politica commerciale è complicata.
Innanzitutto gran parte degli scambi commerciali moderni riguarda beni intermedi, cioè cose che vengono usate per fabbricare altre cose. Un dazio sull’acciaio aiuta i produttori di acciaio, ma danneggia i consumatori di acciaio come l’industria automobilistica: perciò anche l’impatto diretto del protezionismo sull’occupazione non è chiarissimo.
Poi ci sono gli effetti indiretti, che significano che qualsiasi guadagno occupazionale in un settore protetto da dazi dev’essere messo a confronto con le perdite occupazionali in altri settori. Normalmente i commerci e la politica commerciale hanno un impatto trascurabile se non nullo sull’occupazione complessiva. Influenzano il tipo di lavori che ci sono in giro, ma non (o molto poco) quanti lavori ci sono in giro.
Supponiamo che Trump voglia imporre dazi su un ampio ventaglio di beni, per esempio quel 10% su tutte le importazioni di cui si parlava prima che entrasse in carica. Questo dazio porterebbe benefici diretti a settori che competono con i prodotti di importazione, ma la storia non finirebbe qui.
Anche tralasciando i danni per i settori che usano fattori di produzione importati, qualunque creazione diretta di occupazione determinata dai nuovi dazi sarebbe compensata dalla distruzione indiretta di altri posti di lavoro. La Federal Reserve, temendo pressioni inflazionistiche, aumenterebbe i tassi di interesse, mettendo a dura prova settori come l’immobiliare e rafforzando il dollaro, con conseguenti penalizzazioni per l’export americano.
Dire che il protezionismo provocherebbe una recessione è esagerato, ma ci sono tutti i motivi per credere che questi effetti indiretti annullerebbero qualsiasi creazione netta di posti di lavoro.
Poi c’è il problema della reazione degli altri Paesi. I commerci internazionali sono governati dalle regole, regole che l’America ha contribuito a creare. Se cominciamo a violare quelle regole, lo faranno anche altri, per ritorsione e per semplice emulazione. È questo che si intende quando si parla di guerra commerciale.
Ed è folle immaginare che l’America «vincerebbe» una guerra di questo tipo. Anche semplicemente per il fatto che in campo commerciale siamo tutt’altro che una superpotenza dominante: l’Unione europea è grossa quanto noi e in grado di rispondere efficacemente (come scoprì l’amministrazione Bush quando reintrodusse i dazi sull’acciaio, nel 2002). In ogni caso, quando si parla di commerci non è questione di vincere e perdere: generalmente gli scambi rendono più ricche entrambe le parti e solitamente una guerra commerciale danneggia tutti i Paesi coinvolti.
Non voglio fare il purista del libero scambio. L’avanzata rapida della globalizzazione ha penalizzato una parte dei lavoratori americani e l’impennata delle importazioni dal 2000 in poi ha sconvolto settori industriali e comunità. Ma una guerra commerciale in stile Trump servirebbe solo ad aggravare i danni, per due ragioni.
Una è che la globalizzazione è già avvenuta e le industrie americane ormai sono incastrate dentro una ragnatela di transazioni internazionali. Di conseguenza, una guerra commerciale sconvolgerebbe molte comunità, esattamente come è successo quando il volume degli scambi è cresciuto. C’è una vecchia barzelletta sull’automobilista che investe un pedone e poi cerca di riparare al danno facendo marcia indietro… e ripassando sulla vittima una seconda volta. Ecco, la politica commerciale trumpiana sarebbe una cosa simile.
Inoltre, i dazi che vengono proposti darebbero una spinta a settori a forte intensità di capitale, che impiegano un numero relativamente basso di lavoratori per ogni dollaro di vendite: questi dazi non farebbero altro che sbilanciare ancora di più la distribuzione del reddito a danno dei lavoratori.
(Traduzione di Fabio Galimberti)