Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2017
Ecco chi sono e come lavorano i «chirurghi» delle sofferenze
Nel 2016 hanno avuto un giro d’affari di oltre 700 milioni di euro. Hanno in gestione, secondo una stima di PwC, qualcosa come 180 miliardi di crediti deteriorati delle banche italiane. Sono i «servicer», i signori degli Npl: cioè le società che in Italia si occupano di recuperare i crediti in sofferenza. Quelle che contattano i debitori insolventi e che gestiscono i contenziosi. Anche quando a comprare i crediti in sofferenza sono fondi internazionali, dietro le quinte ci sono sempre loro: «servicer» italiani come doBank, Cerved CM, Caf, Fbs, Guber e Hoist Italia per citare i maggiori. E dato che dietro i crediti in sofferenza ci sono padri di famiglia e imprese, è giusto porsi qualche domanda su questi soggetti: come lavorano? Che metodi usano per recuperare i crediti? Chi li vigila? Hanno codici etici?
Un fenomeno enorme
Che i crediti in sofferenza siano un tema sociale è evidente. Non esistono stime recenti, ma qualche dato vecchio inquadra il fenomeno. Qualche anno fa, su dati 2013, un operatore del settore aveva calcolato che dietro i crediti deteriorati di allora c’erano 2,3 milioni di affidati, tra i quali 780 mila famiglie. Se si considera che per ogni debitore principale ci sono spesso altri soggetti collegati alla posizione (i garanti), si stimava ai tempi che questa montagna di crediti potesse coinvolgere qualcosa come 7 milioni di persone. E dato che ogni persona ha una famiglia e ogni impresa ha dei dipendenti (che rischiano il posto), si capisce quanto il problema sia esteso. Si pensi che, secondo i dati Bankitalia, tra il 2006 e il 2015 sono state chiuse oltre un milione di posizioni in sofferenza di famiglie e 616mila di imprese.
Ecco perché l’etica di chi gestisce i crediti è fondamentale: se il recupero crediti viene fatto bene, va a risolvere problemi sociali enormi. Altrimenti va a crearli. «Noi svolgiamo attività sia sul lato giudiziale sia in particolar modo sul versante extragiudiziale, al fine di trovare un accordo con il debitore – spiega Riccardo Serrini, Ceo di Prelios Credit Servicing -. Questo è molto importante perché spesso si riescono così a sbloccare situazioni debitorie, e aziende, a volte ferme da anni».
Investitori e servicer
I fondi internazionali che acquistano crediti in Italia si appoggiano sempre a «servicer» locali. Alcuni li hanno anche comprati: per esempio l’americano Fortress ha acquistato Italfondiario e doBank (il maggior servicer della Penisola secondo PwC), il fondo Varde ha rilevato il 33% di Guber (quinto) e così via. Altri investitori, invece, quando acquistano un pacchetto di Npl li affidano in gestione a «servicer» esterni. In ogni caso sono queste società di recupero-crediti a lavorare sulle sofferenze italiane, non i fondi esteri. Lo fanno talvolta con dipendenti interni, altre volte attraverso professionisti esterni a partita Iva. In prevalenza si tratta di avvocati e di laureati in giurisprudenza o in economia. Sono loro che contattano i debitori per portare a termine una trattativa extragiudiziale (proponendo anche stralci del debito) oppure per avviare azioni legali.
Chi vigila i servicer
Il problema è che non tutti questi soggetti sono vigilati. Ci sono infatti tre tipi di «servicer». Alcuni hanno la licenza bancaria, come doBank e Credito Fondiario. Altri (11 sui 29 censiti da PwC) sono iscritti all’albo previsto dall’articolo 106 del Testo Unico bancario e dunque sono anch’essi vigilati da Bankitalia. «Essere iscritti all’articolo 106 significa subire le ispezioni di Bankitalia, ma anche dotarsi di una rigorosa organizzazione interna in tema di governance e di sistemi di controllo – spiegano Elena Ruo e Paolo Strocchi di Fbs, quarto maggior servicer in Italia -. E questa non è solo formalità, dato che la reputazione in questo settore è fondamentale».
La maggior parte dei servicer però non è vigilata da Bankitalia, ma iscritta all’albo previsto dall’articolo 115 del Tulps (la legge sulla pubblica sicurezza). Questi servicer sono controllati dalla Questura, che verifica, tra l’altro, l’onorabilità dei lavoratori. Ma non c’è una vera vigilanza. Molte società iscritte a questo articolo hanno comunque regole ferree. È il caso di Cerved CM (secondo servicer italiano): «Noi siamo quotati in Borsa e dunque sottoposti a vigilanza della Consob – spiega l’a.d. Andrea Mignanelli -. In ogni caso i comportamenti dei nostri lavoratori sono regolati da procedure interne e tutte le telefonate con i debitori vengono registrate. Stiamo anche creando un sistema automatico di voice recognition, in grado di analizzare milioni di telefonate e di riconoscere anche se vengono usati toni minacciosi. Questo lo facciamo per tutelarci ma anche per migliorare il nostro business». Dunque essere iscritti al 115 non significa comportarsi meno bene. Certo è che la vigilanza esterna sarebbe sempre auspicabile.
Codici etici
Le maggiori società del settore hanno inoltre dei codici etici. «DoBank – spiegano dal gruppo – ha adottato un modello di organizzazione, gestione e controllo che prevede un Codice etico, nel quale vengono disciplinati i rapporti con i soggetti terzi». Tutti i servicer contattati dal Sole 24 Ore ne hanno uno. Questo non elimina certo i rischi. Ma, almeno per i servicer più grandi, una certa correttezza sembra possibile. «Non abbiamo segnalazioni recenti di comportamenti illegali di queste società», conferma infatti Elio Lannutti dell’Adusbef. Il problema sta forse nella miriade di piccoli servicer, che si muovono più nell’ombra. Ma non sono quelli ai quali si appoggiano i grandi investitori internazionali.
m.longo@ilsole24ore.com