La Stampa, 12 luglio 2017
Intervista ad Antonio Banderas, goloso di vita e di lavoro dopo i gravi problemi di salute: «Per fare i film che vorrei ho cominciato a scriverli io»
Il bello di Antonio Banderas, oltre un dato fisico incontrovertibile, è il suo essere rimasto un latino nell’accezione cavalleresca del termine. Lui si interessa – o finge ma di farlo, ma in modo splendido – a chi ha di fronte, pur se non lo rivedrà mai più. Alcuni la chiamano professionalità, ma c’è di più.
Nel giorno in cui la Spagna l’ha insignito del Premio nazionale di Cinema 2017 alla carriera, assegnato dal ministero della Cultura, Banderas è arrivato al Film & Music Ischia Global Fest per lanciare Black Butterfly, in sala da domani, il film di Brian Goodman di cui è protagonista con l’ottimo antagonista Jonathan Rhys-Meyers (L’Enrico VIII della serie di culto Tudors e dunque Match Point di Woody Allen). Volto femminile, quella Piper Perabo di Covert Affair, serie spy-drama molto amata negli States.
Hollywood? Non esiste
Il plot di questo film thriller, remake del tv movie francese Papillon Noir che ebbe un buon riscontro oltr’Alpe, ci racconta di uno scrittore un tempo di successo precoce, che ora troviamo in crisi d’idee, alcolizzato, senza un soldo e depresso, in una casa lontana da dio e dagli uomini nel Colorado. Per inciso, tutto il film prodotto dalla Ambi Pictures e dalla Paradox Studios è stato interamente girato a Roma per gli interni e a Bracciano per gli esterni montani, tutti credibilissimi.
Banderas, bizzarro ricostruire l’America in Italia. O no?
«La mia carriera si è svolta in Canada, Messico, Bulgaria. Hollywood oramai è solo un marchio, un nome come Cameron Diaz o Robert De Niro. Non si gira più lì. Le maestranze italiane poi sono superbe».
Un personaggio cattivo, tanto per cambiare.
«Sì, tanto per cambiare. Ho girato film per bambini come Zorro e ora volevo essere credibile da presunto serial killer che ha perso tutto, anche la moglie. Per costruire il personaggio mi sono affidato alla sceneggiatura perfetta e al regista che sapeva perfettamente ciò che volevamo. Ho cercato di andare oltre al giallo vero e proprio. Questo è un film dentro al film che si aggroviglia in una spirale di menzogne. In fondo è la metafora della vita, dove tutti mentono. Non è diventato così il mondo?».
Visione pessimistica della vita.
«Di quello che siamo oggi, si. La cosa più triste degli ultimi dieci anni è il selfie che ti mette al centro di te stesso. Di una solitudine infinita».
A settembre dovrebbe cominciare a girare un altro film sulla vita di Ferruccio Lamborghini. Con gli stessi produttori, è esatto?
«Ancora non ho visto la sceneggiatura, ma sì, è esatto. D’altra parte non mi piace immaginare dove andrò domani per lavoro. Lavoro e basta. Credo però che la mia strada mi spinga altrove. Ho già diretto due film americani e uno spagnolo. Erano tratti da romanzi e dunque ero ingabbiato. Ora sto scrivendo mie storie, che raccontano di problemi contemporanei e di quelli mi voglio occupare».
Che tipo di storie?
«Rifletto molto sulla percezione della realtà e la realtà stessa, sui sistemi di comunicazione e sulla giustizia quando tutti si ergono a giudici inflessibili sui guai altrui e poi su quanto le nuove tecnologie intervengano nella nostra quotidianità. E ho un grande interesse per il tema della famiglia e delle dinamiche interne che vi si scatenano».
Niente più?
«Ora vivo a Londra e mi piacerebbe tornare a teatro. Vedo la mia nuova vita da testimone. Ho girato 104 film, ho partecipato a musical, ho lavorato a Broadway. Sono soddisfatto. Forse se avessi compiuto scelte d’opportunismo avrei una carriera migliore ma io accetto solo ruoli in cui mi sento a mio agio. Mi piace recitare, è adrenalina, come voglio sentirmi autore. La vita non dura per sempre e voglio continuare così fino a che non muoio».
Parla in questo modo da quando ha avuto l’attacco di cuore che l’ha portata ad un’operazione seria e all’applicazione di tre stent?
«Forse, però mi sembra di essere sempre stato così. Sempre aperto a tutte le sorprese».