La Stampa, 12 luglio 2017
Il pm antimafia: «In politica per proseguire il lavoro fatto con la toga». Intervista a Nino Di Matteo
Scende in campo o no? «Né sì né no». Sibillino, abituato alla sottigliezza del diritto, Nino Di Matteo ribadisce di essere favorevole all’impegno di un magistrato in politica, a condizione che gli tocchi fare qualcosa di consono al suo lavoro in toga. Già dato per candidato dei Cinque Stelle alla presidenza della Regione Sicilia e ora che quell’ipotesi è svanita risponde alle domende sulle ultime indiscrezioni, ribadendo la posizione espressa durante convegno alla Camera il 31 maggio. «Quelle cose le confermo anche adesso». Il pm, recentemente trasferito da Palermo alla Direzione nazionale antimafia, costretto a vivere sotto scorta per i progetti di morte ai suoi danni esternati dalla mafia, sta per ricevere la cittadinanza onoraria di Roma, un Comune ad amministrazione pentastellata.
Vero o falso, dottore Di Matteo? Farà il ministro con il Movimento di Grillo?
«Le cose che ho affermato a fine maggio le ho dette perché le penso e a prescindere da ogni eventuale, ipotetica proposta».
Perfetta non-risposta. Da politico consumato.
«Non ho cambiato idea. Mi sembra di essere chiaro».
Lei cioè ritiene che…?
«Non sono pregiudizialmente contrario all’impegno di un magistrato in politica, soprattutto se questo significasse la naturale prosecuzione del lavoro svolto con la toga addosso».
Che tradotto dal politichese-giudiziario significa?
«Significa che una cosa sarebbe fare il ministro o il sottosegretario alla Sanità, altro invece svolgere un ruolo politico, da tecnico, che abbia a che fare con la macchina della giustizia o con la lotta alla criminalità».
Detto in parole povere, significa ministro della Giustizia o degli Interni. Conferma o smentisce?
«Preferisco dire un’altra cosa».
Ancora?
«Alla Camera, presenti Davigo, Cantone e Travaglio, aggiunsi che l’unica condizione per l’ingresso in politica era che, dopo l’esaurimento dell’incarico o del mandato, si stabilisse l’impossibilità di tornare a svolgere il ruolo di magistrato. Al di là del modo del singolo di essere imparziale, c’è un’immagine di terzietà che viene meno, nella pubblica opinione».
Però lei parlava di giustizia, corruzione e mafia: sembrava il suo programma e Marco Travaglio le chiese se volesse fare il guardasigilli.
«E io non ho detto che non farò il ministro della Giustizia, né che lo farò: a parte che nessuno me lo propone».
Sicuro?
«Davigo e Cantone, che parlarono prima di me, bollarono negativamente il nostro eventuale impegno in politica. Io risposi che, a determinate condizioni, un magistrato può contribuire in maniera positiva all’elaborazione di linee politiche che rappresentino la prosecuzione dell’impegno in toga».
Le priorità di un ministro-magistrato?
«La lotta al sistema mafioso e corruttivo, e questo quale che sia il colore del governo. Finora i governi non hanno mai dimostrato di considerare una priorità assoluta la lotta al sistema criminale integrato. I dati relativi al numero dei detenuti condannati per corruzione conferma che la lotta alla criminalità è a due velocità».
Lei sarebbe un ministro giustizialista?
«La mia sortita del 31 maggio provocò un editoriale di Cerasa sul Foglio. Non se la prese con i magistrati giustizialisti ma, con grande acume, elogiò la magistratura cosiddetta moderata, che reagisce ai giustizialisti».
Che sarebbero?
«Io e Davigo».