La Stampa, 12 luglio 2017
Su Washington soffia un vento che evoca il Watergate
Il 17 giugno 1972 la vigilanza di un solerte guardiano notturno diede inizio in sordina a una delle più gravi crisi costituzionali della storia americana, una cospirazione perfetta contrastata solo grazie alla resilienza delle istituzioni permanenti – i tribunali, i mezzi d’informazione, la burocrazia governativa e un Congresso super partes: era il Watergate. All’epoca ero un ragazzo appena congedato dal servizio militare in Marina, di ritorno dal Vietnam in un paese che durante la mia assenza era cambiato moltissimo. Trovai un’America polarizzata, spaccata sulla guerra, dove ogni giorno c’erano enormi manifestazioni; anche le famiglie, compresa la mia, erano divise. Mi sembrava che gli Stati Uniti stessero per andare in pezzi. Ripensandoci ora, a 73 anni, avverto di nuovo l’eco di quell’epoca turbolenta. Forse gli Usa sono di nuovo sull’orlo di una crisi costituzionale?
La verità è che non lo sappiamo – così come non potevamo sapere, 45 anni fa, a cosa ci avrebbe portato il Watergate. La vicenda di un gruppo di ex addetti alla sicurezza arrestati per essere entrati di nascosto nella sede del partito democratico allora non ebbe nemmeno la prima pagina sui quotidiani nazionali. Cinque mesi dopo Richard Nixon fu rieletto a valanga, conquistando 48 Stati. Nessuno poteva immaginare che quella vittoria sarebbe stata macchiata da un rovescio politico. Allora Watergate era solo il nome di un esclusivo complesso residenziale sul Potomac, nessuno l’associava a uno scandalo che avrebbe fatto fuori un presidente.
Fu il reato di ostruzione alla giustizia a travolgere Nixon, consegnando alla storia un vecchio cliché che vuole il rimedio peggiore del male. Per rallentare le indagini il presidente Nixon ordinò il licenziamento del procuratore speciale Cox e sia il procuratore generale Richardson sia il suo vice William Ruckelshaus, che rifiutarono, furono costretti a dimettersi. Fu il cosiddetto «massacro del sabato sera». Il tumulto che ne nacque costrinse Nixon a nominare un nuovo procuratore speciale, Leon Jaworsky, che rimase in carica fino al termine dell’inchiesta.
Ai giorni nostri il presidente Trump ha licenziato il direttore del Fbi, James Comey, che indagava in modo troppo aggressivo sull’influenza russa sul voto americano, causando un’analoga tempesta. Al procuratore generale non è restata altra scelta che nominare un nuovo procuratore speciale, l’ex capo dell’Fbi, Robert Mueller. È girata voce che Trump volesse licenziare anche lui, ma è rimasto al suo posto. Chiaramente se lo facesse questo scatenerebbe una crisi costituzionale conclamata e sarebbe un altro Watergate. A meno che questo non avvenga in seguito alle indagini di Mueller.
Ma essendo da cinquant’anni un osservatore e un protagonista del governo e della politica americana io sono anche affascinato dal ruolo delle istituzioni permanenti americane e dall’impatto che potranno avere sugli eventi futuri.
La stampa americana, guidata dai quotidiani, sta seguendo la vicenda delle interferenze russe e del denaro di Trump con una determinazione mai vista negli ultimi anni – forse fin dai tempi del giornalismo militante e imprenditoriale del Watergate che consacrò i nomi di Woodward e Bernstein. Gli abbonati e i lettori sono incredibilmente aumentati durante questi primi mesi dell’amministrazione Trump. E la stampa è anche imbeccata da diversi rami della burocrazia governativa permanente di Washington, un po’ come fece la celebre «Gola profonda» dell’era Watergate, una reazione difensiva di una burocrazia che non si appoggia a nessun partito politico, ma teme la violazione delle norme comportamentali nel governo stesso e si sente investita del compito di tutelare l’ordine.
Il Congresso sta agendo di conserva con uno spirito bipartisan mai visto in anni recenti. Il senatore Richard Burr (repubblicano del North Carolina) e il senatore Mark Warner (Democratico della Virginia) stanno collaborando a un’indagine approfondita sulle manomissioni elettorali russe indipendente dall’interferenza della Casa Bianca. Questo tipo di collaborazione ricorda l’interazione costruttiva tra il senatore democratico Sam Erving e il collega repubblicano Howard Baker durante le celebri udienze del Watergate. Infine, i tribunali federali hanno bloccato con successo la maggior parte degli ordini esecutivi del presidente Trump per bloccare l’immigrazione. Anche se queste azioni giudiziarie non si riferiscono ancora all’inchiesta russa, sono una indicazione dell’indipendenza delle istituzioni rispetto alla Casa Bianca.
E poi c’è la natura in continua evoluzione delle questioni che emergono. Mentre il procuratore speciale e le audizioni del Congresso continuano a tirare le fila delle informazioni riservate, le indagini si stanno muovendo oltre il tema dell’interferenza russa per esaminare i collegamenti finanziari tra i russi e appartenenti alla cerchia di Trump, compresi forse membri della famiglia del presidente, come Jared Kushner e il figlio Donald Jr. Mueller sta assumendo esperti di indagini finanziarie per esaminare le connessioni.
Il Watergate iniziò come un semplice caso di scorrettezze politiche e in due anni si trasformò in un’inarrestabile crisi costituzionale, spazzando via un presidente che appariva saldissimo. Non sappiamo a cosa porterà l’indagine sulla Russia: al momento non è ancora il Watergate ma avendo già sentito soffiare venti simili, posso dire che è una sensazione familiare, e può ben essere che una tempesta si profili all’orizzonte.
Traduzione di Carla Reschia
*Già ambasciatore americano in Italia dal 2009 al 2013