Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2017
La liberazione di Mosul lascia aperta la crisi irachena
In Iraq c’è sempre qualche cosa di volatile anche nelle vittorie epocali come questa contro il Califfato. Mosul è stata liberata dall’esercito iracheno appoggiato dagli Stati Uniti e da una pletorica coalizione di 80 Paesi ma nell’assedio della città sono state impegnate anche le milizie sciite, i pasdaran iraniani e gli Hezbollah, ovvero coloro che Washington, i sauditi e gli israeliani ritengono i loro peggiori avversari.
Il passato, anche recente, invita alla prudenza. Nel 2003 gli americani celebrarono con grande enfasi la caduta di Saddam Hussein, poi sappiamo cosa è successo: il Paese precipitò prima in un’anarchia sanguinosa e nel terrorismo di Al Qaeda. Nel 2011 gli Stati Uniti di Obama si ritirarono affermando che l’Iraq era ormai un caposaldo democratico in Medio Oriente e riempirono di armi gli arsenali iracheni di cui si impossessò poi l’Isis per condurre la guerra sia in Iraq che in Siria. Se si sostituisce il nome di Saddam con quello di Al Baghdadi ci sono tutte le premesse per smorzare i toni celebrativi. Gli Usa hanno fornito appoggio aereo e addestramento alle truppe irachene ma gli iraniani continuano a essere la potenza straniera più influente a Baghdad, oltre a costituire insieme ai russi il puntello del regime di Assad in Siria.
Nel momento in cui il Califfato viene sconfitto in Iraq non bisogna dimenticare le cause profonde che hanno portato alla sua affermazione. Un’ascesa determinata dagli errori del nemico, dall’emarginazione dei sunniti da parte del governo sciita iracheno, dal risentimento di quella parte di popolazione che si sente discriminata e senza difesa. Se l’Iraq non risolverà questo problema e continuerà con il settarismo, è forse inevitabile che nascerà una nuova entità per rimpiazzare lo Stato Islamico o che i jihadisti troveranno nuovi modi per infiltrarsi nella società irachena, magari con il tipico trasformismo mediorientale.
Ma la questione settaria, aperta in maniera tragica proprio dall’invasione americana del 2003, va ben oltre l’Iraq. Nei territori tra Baghdad e Damasco ci sono 25 milioni di sunniti che in Siria sono stati sconfitti da un regime alauita, puntellato da Russia e Iran, l’unica minoranza rimasta al potere in Medio Oriente. È evidente che questa realtà non si può ignorare e i sunniti, che siano minoranza in Iraq o maggioranza in Siria, dovranno essere convinti di vivere in stati che proteggono anche i loro diritti, tra cui quello di entrare nella stanze del potere per decidere il loro destino.
La questione delle minoranze – etniche, religiose o settarie – è al cuore del futuro della Mesopotamia. Possono far saltare qualunque governo, come hanno dimostrato i sunniti in Iraq, o restare abbarbicati al potere, contro ogni previsione, come gli alauiti in Siria. Basti pensare ai curdi diventati protagonisti in Iraq e in Siria, dove sono la punta di lancia delle forze sostenute dagli americani nell’assedio di Raqqa. Sfruttando la disgregazione dello stato iracheno il leader curdo Barzani ha promesso in settembre un referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno. Il turco Erdogan ha appena lanciato il suo avvertimento: l’Iraq, ha detto, deve restare unito. Un appello un po’ paradossale per un leader che voleva fare a pezzi la Mesopotamia portandosi a casa Aleppo e Mosul. Ma adesso le cose sono cambiate e può trovare un alleato contro i curdi nello stesso Iran, che non vuole cedere alle rivendicazioni dei “suoi” curdi. Si capisce molto bene che la liberazione di Mosul può essere un svolta nella guerra contro “questo” Stato Islamico ma è soltanto un capitolo di un conflitto più ampio e profondo. Nel 2003, dopo la caduta di Saddam, gli Usa apparivano i padroni della regione: oggi non solo non è più così ma devono fare i conti con la Russia, come ha dimostrato il cessate il fuoco raggiunto tra Putin e Trump nella Siria del Sud-Ovest.
Niente è più effimero in Medio Oriente del destino di interi popoli e nazioni.