la Repubblica, 11 luglio 2017
Dai «Tre porcellini» ai maiali giganti di «Okja» il cinema racconta i suini
I tre allegri porcellini canterini dei fratelli Grimm e di Walt Disney, Bebe il maialino coraggioso che protegge il gregge di pecore, Okja il maialone gigante che si spera forse sfuggirà al suo destino di braciola, persino la scrofa Betty allevata amorevolmente per finire a tavola in Pranzo reale; e l’adorata Peppa Pig, che fa impazzire i piccolissimi del mondo? Tutti suini inventati, che hanno vite ben diverse da quella vera dei disgraziati maiali del mega allevamento in via di ampliamento di Schivenoglia (di cui ieri ha scritto Brunella Giovara) e di altri paesi ovviamente non solo italiani: pochi mesi di orrida sopravvivenza, schiacciati uno contro l’altro, senza spazio, senza pietà, senza rispetto. I suini inventati sono molto amati da grandi e piccini, quelli veri erano un tempo allevati con cura, prima della annuale macellazione, quasi sempre uno solo per cascina contadina. Poi si racconta della devozione di Isabella Rossellini per i suoi maiali pelosi, razza kunekune, e del pianto, molti anni fa, di un George Clooney con tanti capelli neri, per la morte del suo diciottenne, cioè vecchissimo, maiale Max, spesso ospitato in casa.
Quelli di oggi, a migliaia in maialifici crudeli, sono odiati dagli umani costretti a viverci vicino, per l’invasione, loro incolpevoli, della puzza e dei liquami che inquinano il territorio. La Superpig Okja è la protagonista di un film cui dà il titolo, diretto dal coreano Bong Joon-ho, invitato all’ultimo Festival di Cannes, prodotto da Netflix, sulla cui piattaforma già si può vedere. Okja è uno dei primi esperimenti di maiale geneticamente modificato grande come un elefante e dato da allevare a una famiglia composta da un nonno e una nipote orfanella, che vivono soli in una foresta immensa e rigogliosa della Corea del Sud. Okja è l’unico animale della piccola fattoria, è molto amata dalla bambina Mija e molto educata: fa i suoi bisogni in una cascata che porta via gli escrementi, fa il bagno in acqua sorgente, la bambina le entra in bocca e le lava i denti. Certo non puzza e non lascia cacche (con cui poi bombarderà i suoi nemici), ha uno spazio grandioso tutto per sé, è felice e adora la ragazzina. Naturalmente a New York la multinazionale che l’ha creata trama per riprendersi lei e i milioni di consimili allevati segretamente, uno per uno da contadini molto isolati (e che naturalmente si aspettano una ricompensa) e farne wurstel nell’immenso macello della metropoli. Chi comanda la Mirando Corporation è una deliziosamente odiosa Tilda Swinton, ma il Fronte di Liberazione Animale e Mija cercano di salvare almeno Okja con le loro deboli forze e tutti contro. E per quanto Okja e i suoi simili siano ovviamente digitalizzati, a vederli stipati a migliaia in un recinto come quelli veri di Schivenoglia, attendere, innocenti e rassegnati, una fine crudele, di terrore e sofferenza, si prova un certo malessere. E non solo perché la scienza ha stabilito che il maiale è una specie animale molto vicina a quella umana. Ma perché, ovvio, ogni animale può inutilmente soffrire. Questo film con i suoi finti maialoni, e la realtà di certi allevamenti intensivi di animali veri che arriveranno cadaveri e buonissimi (non sempre) nei nostri piatti, potrebbero suggerire di diventare vegetariani come già tanti; ma non è detto che si debba rinunciare al prosciutto, alla coppa, all’arista, al cotechino, al lardo, allo zampetto, ai ciccioli, allo stinco, alle costine eccetera. Senza dimenticare Okja e Schivenoglia, ma chiedendo che pur nella loro breve vita, i maiali e gli altri animali alimentari vivano con un minimo di agio e serenità, ignorino cosa li aspetta e non si accorgano del momento in cui verranno giustiziati. Troppo facile, impossibile, ugualmente crudele, vile? Forse, ma la vita non è un film, e gli umani non sono digitalizzati, per ora.