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 2017  luglio 11 Martedì calendario

Chiese, medici e concerti, i «mall» italiani resistono andando oltre lo shopping

ROMA «La Messa è finita. Andate in pace». E comprate in pace. Cappella della Trasfigurazione, centro commerciale Euroma2, Sud della Capitale. Come ogni domenica Don Marco benedice la manciata di clienti e lavoratori arrivati alla funzione e li consegna al rito terreno dello shopping. Nel giorno del Signore giovani e anziani, single e coppie, gente del quartiere e gente di fuori è qui che si ritrovano. «I centri commerciali sono le odierne piazze mercato dove le famiglie trascorrono intere giornate», ha detto monsignor Liberio Andreatta spiegando il perché di questa chiesa. Nel cuore del consumismo tentatore, irrispettoso di orari di apertura e feste comandate, che tante volte prelati e piccoli commercianti hanno condannato.
Ma il centro commerciale, da tempo, non è più questo, non solo. Ci si va per mangiare, per il cinema, per un concerto, per tagliarsi i capelli, per l’aria condizionata. Per riconoscersi e trovare i propri parametri, come scriveva già dodici anni fa Edmondo Berselli su Repubblica.
Comprare anche, ma tra le altre cose. E così mentre negli Stati Uniti, dove li hanno inventati, i mall sembrano avviati ad un inesorabile declino, qui in Italia, il paese delle piazze, paiono reggere. La crisi ha colpito duro, certo: tra il 2012 e il 2015 nessun nuovo progetto, mentre sempre più vetrine rimanevano sfitte. Da un paio di annetti però la tendenza si è invertita, con fatturato e visitatori, circa 5 milioni al giorno, finalmente stabili. Solo dodici centri su quasi 1.200 censiti in Italia hanno chiuso: «Hanno mostrato una buona resilienza», riconoscono da Reno, società di consulenza che ogni anno fa il checkup al settore. Negli ultimi mesi poi sono pure ripartiti i cantieri. Ampliamenti, visto che a tenere meglio sono i grossi shopping center regionali o quelli più piccoli e di nicchia, moda o design di qualità. Quelli medi faticano. Poi nuove aperture come Arese, Brescia e Verona. Più qualche bestione da record all’orizzonte: il Westfield di Segrate, Milano, dovrebbe superare i 200 mila metri quadrati, un primato europeo, così come il polo di Pescaccio a Roma. Taglio dei nastri verso il 2020, politica e burocrazia permettendo.
Ce la fa chi cambia pelle, ecco il segreto. In principio erano solo ipermercati, per la spesa grande della domenica. Poi grandi scatoloni attorno a un parcheggio, dominati da elettronica e abbigliamento. Ma prima dell’e-commerce, che ha affossato entrambi i settori. Le ultime generazioni di mall assomigliano invece a città, dice Davide Padoa, a capo dello studio Design International che ne disegna in tutto il mondo, «con una logica da urbanista». Non più isolati, ma integrati al tessuto cittadino. Al centro la piazza, luogo di ritrovo e aggregazione. Di pausa, dove prima era corsa all’acquisto. Aree verdi e giochi dove lasciare i bambini in sicurezza. Parrucchiere, dentista e perfino clinica ospedaliera, come ad Arese. «Il dato a cui si guarda non è più il numero di persone che arrivano, ma quanto tempo restano», spiega Padoa. E per trattenerli il clima è da industria dell’ospitalità, più che della vendita. Il punto informazioni diventa un concierge, il personal shopper. I bistrot sostituiscono i fast food nelle aree ristorazione, sempre più estese, Farinetti insegna. Per la sera c’è il cinema o un concerto, da Mario Biondi a Fiorella Mannoia le stelle vanno in tour negli outlet.
L’unico modo per scacciare gli spettri che incombono sul settore: l’e-commerce e la consegna a domicilio. Rispetto agli Stati Uniti, dove il digitale ha distrutto i negozi mattoni e cemento, il ritardo tecnologico dell’Italia è stato un vantaggio. Ma il destino, come Amazon o in qualche altra veste, arriverà inesorabile anche qui. «Ne soffriranno i centri meno specializzati, quelli che rispondono a un puro bisogno di acquisto», dice Maddalena Panu, che per l’associazione di settore Cncc è responsabile della ricerca. Anche se la tecnologia si può sempre combattere con la tecnologia, prosegue, con strategie che combinino l’acquisto online con il ritiro nel punto fisico, o viceversa la prova in negozio e lo shopping in Rete. Resta da capire se con 1.178 tra centri commerciali, outlet e simili, uno ogni 64 mila abitanti, e oltre 18 milioni e 800 mila metri quadri di spazi commerciali, pari a 2.600 campi di calcio, lo Stivale non sia saturo. Le grandi città ormai circondate. Un po’ come la Francia, a sentire l’allarme del patron di Lafayette Philippe Houzé. «In alcune parti d’Italia il limite è vicino, in altre ci sono ancora margini», replica Panu. Di piazze dove sedersi la gente avrà sempre bisogno. Sperando che tra una passeggiata e un concerto si ricordi pure di comprare.