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 2017  luglio 11 Martedì calendario

Liu Xiaobo, la solitudine del Nobel Pechino: «No alle cure all’estero»

PECHINO Diceva: per cambiare il regime dobbiamo cambiare la società. E pensava, ovviamente, alla sua. E invece Liu Xiaobo, il premio Nobel per la pace, muore perché la società che è cambiata è la nostra: com’è che il mondo fa poco o nulla per salvare l’eroe di Tiananmen che chiede di essere curato all’estero? L’accusa di Ai Weiwei, il più noto dissidente cinese, è scioccante come le sue opere: «È disgustoso: e tutto e solo per il denaro». Da Berlino, dove ora vive, l’artista punta il dito contro l’Occidente che lo ospita, e che pure ha contribuito a farlo ricco: «In cella ci sono tante persone – avvocati, difensori dei diritti umani, attivisti». Ma il resto del mondo tace e pensa agli affari. E «su ogni affare» fatto con la Cina viene sacrificata «gente come Liu Xiaobo». Stoccata finale: «Non pensate, quando muore, che nessuno possa dirsi innocente».
Per la verità qualche voce s’è alzata: ma timida. Il Guardian, che raccoglie lo sfogo di Ai Weiwei, rilancia le note dei portavoce dell’ambasciata inglese a Pechino e dell’Unione europea sempre qui in Cina. I diplomatici chiedono sia fatta la volontà del Nobel, che ai due medici stranieri che l’hanno visitato, un americano e un tedesco, ha chiesto di essere portato via per venire curato, appunto, in Germania o negli Usa. I due luminari avrebbero dato il parere favorevole: «Malgrado i rischi dello spostamento in una situazione del genere». Al Nobel è stato infatti diagnosticato un tumore al fegato terminale e proprio per questo il 26 giugno gli è stato concesso di lasciare il carcere dove ha trascorso già sette degli undici anni di condanna per «incitamento al sovvertimento dello Stato». Ma guardato a vista era in cella e guardato a vista è nell’ospedale sempre di Shenyang, nel suo Liaoning, la provincia al nord est al confine con la Corea del Nord.
Sì, prima gli hanno garantito le cure «dei migliori esperti nazionali di tumore», poi hanno invitato «i migliori esperti stranieri» a vistarlo: ma lasciarlo andare no, «troppo grave» continuano a dire, fino al bollettino che ieri notte definiva le sue condizioni ormai «critiche».
Col contagocce perfino le visite dei parenti. A rincuorare, si fa per dire, gli amici e gli attivisti di tutto il mondo quella foto in clinica dove ormai sembra una larva, ma almeno ha la forza di sorridere accanto a Lia Xia, l’amore di una vita, conosciuta quando lui era ancora un prof ribelle, prima ancora che tornasse dagli studi alla Columbia di New York per difendere i ragazzi di Tiananmen. Lia, che durante la sua terza prigionia sfidò le guardie del campo di lavoro urlando «voglio sposare quel nemico dello Stato». Lia, che l’altro giorno si disperava in un video su Internet, «non c’è più tempo per il trapianto, non c’è più tempo per la chemio». Lia, che quando al marito diedero il Nobel, 2010, un anno dopo essere stato arrestato per aver firmato quella Carta 08 che chiedeva la fine del partito unico, fu anche lei posta agli arresti domiciliari: senza nessuna imputazione.
L’ambasciata di Berlino adesso lamenta che qualcuno abbia fatto uscire sui «media vicini allo Stato» le immagini del medico tedesco che visita il dissidente: per far vedere com’è trattato con attenzione. «Sembra che a guidare questa vicenda siano gli organi di sicurezza», dice la nota, «non le autorità mediche». Stizza contenuta. E contenuta è la risposta di Pechino: «Rispettate la sovranità giudiziaria della Cina, non interferite negli affari interni». La vita, e la morte, di un premio Nobel sotto chiave sono affari interni? Tace l’America di Donald Trump che prega che il Dragone le tenga a bada Kim Jong-un. Perfino il South China Morning Post, il quotidiano di Hong Kong di proprietà di Jack Ma, grande amico di Xi Jinping, nota come «il nome del più famoso prigioniero politico non sia stato neppure tirato in ballo mentre il presidente cinese e Angela Merkel facevano comunella su panda e pallone». Il portavoce della cancelliera reagisce senza specificare se del caso si sia parlato o no. La Germania, dice, chiede «un gesto umanitario»: non giustizia, clemenza. Povero Liu Xiaobo: per cambiare il regime, diceva, bisogna cambiare la società. Ma quant’è più facile, per la nostra società globalizzata, cambiare quattrini.