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 2017  luglio 11 Martedì calendario

Porti, Ong e pressioni su Malta, la strategia italiana sui migranti

ROMA Il governo italiano si presenta questa mattina nella sede polacca di Frontex con una proposta che, in buona sintesi, suona così: «L’operation plan della missione Triton va riscritto, non è più sostenibile».
Non è un diktat, il nostro Paese non è nelle condizioni né di imporlo né di giocare troppo al rialzo. È però l’inizio di un negoziato. Che sarà lungo, strategico e condotto da una posizione di debolezza per gli accordi a cui precedenti governi (Berlusconi nel 2003 e Letta nel 2013 con i trattati di Dublino, Renzi nel 2014 con Triton) hanno aderito, quando i flussi migratori dalla Libia erano, per consistenza e modalità di soccorso, assai diversi.
A Varsavia va una delegazione guidata dal direttore della polizia di Frontiera Giovanni Pinto, accompagnato da un rappresentante diplomatico. È un incontro tecnico, non risolutivo, che servirà al ministro dell’Interno Marco Minniti per tastare il polso di chi siede dall’altra parte del tavolo, nella sede dell’agenzia Frontex che coordina Triton.
Due gli obiettivi minimi che l’Italia vuole raggiungere. Il primo: strappare l’impegno alla condivisione degli sbarchi nei porti della costa meridionale dell’Europa, possibilmente in Spagna e Francia. Il secondo: costringere Malta a riassumere il ruolo di “porto sicuro più vicino” all’interno della sua vastissima zona Sar (Search and rescue) nel Mediterraneo Centrale. Nella prassi, infatti, è stato accettato il principio che sia il Centro di coordinamento marittimo di Roma a supplire ai maltesi, che non intervengono alle chiamate di emergenza nonostante ricevano fondi Ue per coprire l’area di ricerca e far funzionare i pattugliatori.
L’ipotesi di partenza è quella di suddividere la Sar ora in carico solo all’Italia in zone di competenza tra le nazioni europee che si affacciano sul Mediterraneo, in modo da consegnare la gestione, il soccorso e il porto di approdo di volta in volta allo Stato responsabile. Ma solo l’idea di vedere una nave carica di migranti attraccare in una darsena che non sia italiana ha generato una sfilza di no durante il vertice informale dei ministri dell’Interno a Tallinn. L’extrema ratio del governo italiano è l’uscita unilaterale da Triton: secondo i consiglieri giuridici del ministero si può fare, ritirando l’adesione all’operation plan che ci impone di essere “country host” della missione. A quel punto, le motonavi di Triton non avrebbero più l’accesso automatico ai porti del Sud Italia.
L’urgenza di riscrivere le regole operative farà leva sulla “questione sicurezza” relativa al lavoro delle dieci navi Ong apparse nel 2016: prima Triton recuperava davanti alla Libia una quota consistente di profughi, ma nei primi sei mesi del 2017 le Ong hanno coperto il 34 per cento dei salvataggi, Triton l’11 per cento, Sophia (missione militare Ue) il 9 per cento. Nel 2016 la quota Ong fu del 25 per cento, nel 2015 praticamente zero. «Triton è una missione di protezione della frontiera – è il ragionamento che fanno in queste ore al Viminale – le Ong pongono oggettivamente un problema di sicurezza perché operano sul confine meridionale dell’Unione, quindi bisogna discuterne insieme agli altri membri».
A Varsavia, dunque, si parlerà anche di Ong. Tra le varie proposte allo studio c’è quella di dirottare lo sbarco dei naufraghi salvati dalle navi delle organizzazioni umanitarie nei porti dello Stato dove hanno la sede (e ricevono finanziamenti pubblici). In alternativa, organizzando un trasporto via aereo dei migranti dopo l’arrivo in Italia. Si tratta però di ipotesi del tutto abbozzate, in fase poco più che embrionale.
Triton scade a fine dicembre, Sophia il prossimo 27 luglio. Secondo l’Ansa, il governo chiederà la revisione delle linee guida anche di Sophia, per far sì che le navi militari evitino di concedere i trasbordi di profughi dalle imbarcazioni delle Ong.
Che intanto, però, non sanno più dove andare. Dopo una decina di giorni di calma piatta sono state salvate sei bagnarole cariche soprattutto di siriani: 766 persone si trovano a bordo delle navi di Save the Children, di Medici senza Frontiere e di Moas. Sono ferme in mezzo al mare «perché – dicono dalla sala operativa della Guardia Costiera it – non abbiamo avuto indicazioni su quali porti indirizzarli».