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 2017  luglio 11 Martedì calendario

Palmira perduta e poi ricreata. L’arte sospesa di Medhat Shafik

Le colonne tagliate del tempio di Baalshamin sono diventate grandi balle colorate; il Leone di Al-lat del Museo archeologico e l’arco di Settimio Severo si ritrovano in installazioni e quadri costruiti con stucchi, carta di cotone, ampolle di vetro, terrecotte, foglie d’oro, sale grosso, legni, tessuti, carta da farina, pigmenti in polvere, rame, garza.
I siti di Palmira, distrutti negli ultimi due anni dall’Isis, rinascono nei lavori di Medhat Shafik, distribuiti in cinque sedi a Milano (appena chiuse), Verona (sino al 30 settembre) e Pietrasanta (sino al 30 luglio). Rispettivamente al Politecnico Campus Bovisa ( Conflitti e tempo sospeso, a cura di Pietro C. Marani), alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Forti ( Progetto prima parete, a cura di Patrizia Nuzzo) e nelle tre gallerie Marcorossi. Un paragone: da una parte le 1.600 missive di Gertrude Bell dall’Iraq ( Lettere da Bagdad ) – nota Marani in catalogo –; dall’altra, le opere di Shafik per la Siria, che «parlano di una bellezza perduta e ricreata, di un amore sconfinato per colori, odori e sapori dell’Oriente, di una consuetudine per materiali e tecniche delle culture nomadiche, siano garze, ceramiche o polveri e terre, o anche fagotti malamente confezionati in cui mettere tutto ciò che si possiede, magari in vista di un viaggio, di una fuga, di un esilio».
Shafik ha ricostruito una città, ripetendo un’operazione in cui ha dimostrato, da anni, di essere un vero maestro. Luoghi che nascono dalla memoria, che nulla hanno a che fare con quelli a noi noti.
Luoghi dei sogni? No. Piuttosto generati durante un sogno in cui si combinano vari elementi, causati da angoscia o eccitazione. Ed ecco che questo ingegnere o architetto dei sogni esce da un cono d’ombra ed appare lentamente, portandosi dietro una Storia fatta anche di soli e di geroglifici, di profumi e di leggende. S’avanza: pelle olivastra, bruciata dal sole africano. A Medhat, l’essere nato nel 1956, lontano dal tempo dei faraoni, gli ha sicuramente salvato la vita. Diversamente, dopo avere completato chissà quale opera di alta ingegneria architettonica, sarebbe stato rinchiuso per sempre all’interno della sua stessa creazione.
Shafik è scenografo di grande talento, oltre che artista straordinario. La grande suggestione di queste mostre lascia davvero senza parole. Capace di creare una bellezza senza riserve. Bellezza visibile, ma anche tangibile. Shafik rielabora civiltà e memorie diverse, culture arabe e rinascimentali; coniuga antico e moderno, Mito e Storia. Il suo sogno, scriveva il compianto Giorgio Cortenova una decina di anni addietro, «danza a cavallo di una nube». Ed è proprio questa la sensazione che viene trasmessa al visitatore: essere trasportato su una nube, dalla quale curiosare fra i resti della «Sposa del deserto» (com’era chiamata Palmira); fra colonne di templi e archi di trionfo, tombe e anfiteatri, il tetrapilo e l’agorà, mentre la geometria muta continuamente e il viaggio non si conclude mai. Talvolta i dipinti di grande dimensione si sostituiscono alle pareti. E, col suo tempo sospeso, la città di Zenobia diventa teatro della Storia, mentre l’artista riesce persino a percepire voci che salgono dai vicoli, a delinearne i confini, a coglierne i riverberi di luce, ad immaginare le porte dell’alba, il regno di Bet-Zabbai, i miraggi delle sorgenti e persino il fiorire delle ombre.
Ma chi è e da dove viene questo artista capace di scalfire l’impenetrabilità del XXI secolo? Non ha certo una biografia fuori dal comune, Shafik. Anzi. Nato a El Badari, dal 1976 Medhat vive in Italia. A vent’anni, infatti, approda a Milano, all’Accademia di Brera (pittura e scenografia). Niente di eclatante, si dirà. Eclatante, semmai, è l’uso che egli riesce a fare di questi insegnamenti. La consacrazione arriva nel 1995, quando, chiamato a rappresentare l’Egitto alla Biennale di Venezia, l’artista vince il Leone d’Oro. Da allora Shafik s’è dato un gran daffare a riscrivere la Storia ed a reinterpretare civiltà antiche e moderne. Pittura, calchi, materiali vari, scultura. Per spiegare il suo lavoro, qualcuno usa termini come contaminazione fra mondi diversi. Ma contaminazione non è una bella parola: sa di laboratorio farmaceutico.
S’era già detto: qui è la fantasia, l’estro, la capacità creativa, la forza che viene dal di dentro a far sì che l’artigiano sia diventato artista e che ferro, colla, garza, gesso, ecc. si siano mutati in oro. La città, le città prendono forma, riempiono gli spazi, si dilatano. C’è chi le chiama «città invisibili» e cita a sostegno Italo Calvino e Jorge Luis Borges. Quello di Shafik non è forse «un sogno che danza a cavallo di una nube»?