Il Messaggero, 9 luglio 2017
Mille piccoli comuni soffocati dal debito
ROMA La curva ha la classica forma della U. Quel debito che pure i Comuni nel corso degli anni sono riusciti complessivamente a ridurre incide in maniera diversa sugli enti locali a seconda delle dimensioni: pesando di più sugli estremi, piccoli centri e grandi città, e meno sulle fasce intermedie. Ma se la situazione delle metropoli è in buona parte nota e comunque non sorprende, secondo i dati di Ifel (fondazione dell’Anci, l’associazione dei Comuni) sono proprio paesi e paesini quelli che più di tutti rischiano di essere soffocati dall’eredità debitoria del passato.
I NUMERI
Vediamo i numeri, partendo dal quadro generale. Nel 2016 le amministrazioni locali hanno avuto un saldo di bilancio positivo per 4,2 miliardi, a fronte di un disavanzo di quelle centrali pari a 46,8 miliardi. Una differenza che evidenzia – secondo l’Anci – uno sforzo «collettivo ma diseguale» per il risanamento dei conti pubblici. L’effetto dei risultati annuali sullo stock del debito conferma questa tendenza: la costante riduzione in ambito locale (27 miliardi in cinque anni) ha portato questa componente del debito dal 6,3 per cento del totale nel 2010 al 4 per cento dello scorso anno. In particolare i soli Comuni sono scesi dal 2,5 all’1,8 per cento. Qui però entra in gioco il fattore dimensionale. Il debito, che espresso in termini pro capite risulta più marcato al Nord che al Centro-Sud, grava in modo consistente su quelli piccoli e piccolissimi: 854 euro a testa fino a 1.000 abitanti, che scendono a 670 tra 1.000 e 5 mila Il calo è ancora più drastico per gli enti intermedi: 475 euro pro capite con un numero di abitanti compresi tra i 5 mila e i 10 mila, e poi 502 fino a 60 mila. Il valore risale poi per portarsi a ben 1.463 euro per le città oltre i 250 mila abitanti.
Ma per avere un’idea dell’incidenza reale e quindi di come il debito leghi effettivamente le mani agli amministratori conviene guardare più che allo stock al costo, in termini di interessi da pagare. Nei Comuni più piccoli è di 135 euro pro capite, valore che supera anche i 118 delle grandi città. Tra i 1.000 e i 5 mila abitanti si scende ma non di molto, a 94, mentre il costo risulta più basso per gli enti che hanno una popolazione da 5 mila a 250 mila persone.
Le cifre della Fondazione Ifel entrano ancora di più nel dettaglio individuando i 1.422 piccoli enti che hanno un costo del debito compreso tra il 12 e il 18 per cento della spesa corrente e i 951 che vanno oltre il 18 per cento. Complessivamente, l’onere sfiora i 600 milioni di euro. Per i Comuni il tasso medio pagato per gli interessi si colloca al 5 per cento, quindi a un livello ben più alto rispetto ai tassi di mercato; e questa divergenza colpisce in misura maggiore proprio i piccoli. L’Anci ha elaborato da tempo una serie di proposte per tentare di affrontare una situazione che non solo penalizza il bilancio di parte corrente delle amministrazioni interessate ma limita in modo sostanziale anche la capacità di fare investimenti in ambito locale. Al governo viene quindi chiesto di sospendere le rate di mutuo per i piccoli enti che sopportano un onere particolarmente pesante, di facilitare la sostituzione del vecchio debito con nuovo a tassi aderenti al mercato ed in particolare di concedere la stessa possibilità di ristrutturazione che era stata offerta alle Regioni nel 2014.
I Comuni sostengono insomma di aver dato un contributo pesante alla riduzione del disavanzo di tutto il Paese, quantificato in 9 miliardi di tagli tra i 2011 e il 2015. Ma secondo l’Anci la stretta sta proseguendo per effetto di una norma connessa alla recente armonizzazione contabile, passaggio che pure era stato ben visto dalle amministrazioni comunali: si tratta più precisamente del Fondo crediti di dubbia esigibilità, che impone accantonamenti in corrispondenza di entrate non riscosse, come ad esempio vecchie multe. Si stima che questi accantonamenti valgano nel 2016 qualcosa come 3 miliardi, importo poi destinato a crescere ulteriormente: una sorta di taglio di bilancio occulto che i sindaci vorrebbero mettere in discussione.
LE RICHIESTE
L’altra richiesta forte riguarda la fiscalità locale: dopo che negli anni scorsi l’inasprimento del prelievo a livello comunale ha contribuito al risanamento dei conti di tutto il Paese, i sindaci si trovano ora impossibilitati ad usare la leva impositiva per agire sui propri bilanci, a causa del blocco deciso per legge: vorrebbero quindi recuperare qualche margine di manovra. I Comuni sollecitano anche una profonda revisione del meccanismo Imu-Tasi che partendo dall’unificazione dell’attuale doppio prelievo permetta di lasciare il gettito nei territori, mentre attualmente viene ripartito attraverso il meccanismo del Fondo di solidarietà.