Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  luglio 09 Domenica calendario

Vincenzo Balzani: «La vita è una straordinaria combinazione chimica»

Avevo saputo qualche tempo fa che Vincenzo Balzani, professore emerito all’università di Bologna, era stato fino all’ultimo in lizza per il Nobel della chimica. Era il 2016 e quando tutto sembrava fatto, il riconoscimento venne attribuito a tre eminenti scienziati – un inglese, un francese, un olandese – che si erano serviti abbondantemente dei lavori di Balzani. Un’ingiustizia? Vedremo. Intanto colto da curiosità sono andato a leggermi Energia per l’astronave Terra, un libro scritto con Nicola Armaroli, che nel corso di quasi dieci anni ha venduto più di trentamila copie. Un piccolo caso editoriale, ma soprattutto un esempio di intelligenza divulgativa che mi ha chiarito diverse idee su questa astronave con a bordo 7,5 miliardi di passeggeri (gli abitanti del nostro pianeta) che ha il grosso problema di come, cioè con quali energie, continuare a viaggiare nell’universo infinito. Il Nobel mancato e il destino del pianeta mi sembravano più che sufficienti per conoscere questo signore dai modi affabili e dalla pazienza infinita nello spiegarti le cose. Ci incontriamo all’Istituto di chimica dell’Università di Bologna dedicato a Giacomo Ciamician che agli inizi del ’900 cominciò a studiare le fonti di energia rinnovabili. “Ciamician fu il padre della fotochimica e il profeta dell’energia solare”, dice Balzani. E intuisco che in questa facoltà si sia consolidato un modo nuovo e originale di pensare e studiare la chimica.
Come ha reagito nell’apprendere che il Nobel era andato ai suoi colleghi?
"Per un verso ero contento che fosse attribuito a un campo di ricerche nel quale la mia équipe ha avuto un ruolo fondamentale, dall’altro ci sono rimasto male. Mi sembra una reazione comprensibile”.
Certo, voi che cosa studiavate?
"Macchine molecolari, il Nobel è stato dato per questo tipo di ricerca”.
Cos’è una “macchina molecolare”?
"È un sistema composto da un certo numero di molecole che opportunamente sollecitate compiono movimenti utili allo svolgimento di certe funzioni. Per esempio possiamo creare a livello molecolare dei sensori luminescenti che ci dicono cosa c’è o non c’è nel sangue, oppure ci aiutano a capire se siamo carenti di potassio”.
Perché l’avete chiamata “macchina”?
"Perché come la macchina, anche il sistema molecolare richiede energia per farla funzionare. Ci sono altre analogie, il movimento per esempio, ma quella è la principale. La differenza è che le macchine del mondo macroscopico sono visibili a tutti. La macchina molecolare è un sistema talmente piccolo da richiedere una strumentazione sofisticatissima. Non a caso si parla di “nanomacchine"”.
A cosa serve una macchina molecolare?
"Alla fine è più onesto ammettere che ne conosciamo le potenzialità ma molto meno l’impiego. Quando Michael Faraday nel 1831 dimostrò che era possibile trasformare l’energia meccanica in energia elettrica, il primo ministro britannico gli chiese a cosa servisse quella sostanza chiamata elettricità. E Faraday rispose non si preoccupi signore, vedrà che un giorno la tasserà”.
Perché ha scelto di occuparsi di chimica?
"In realtà avrei fatto volentieri l’ingegnere nucleare. Ma allora in Italia, grazie all’impulso di Enrico Mattei, crebbero le potenzialità della chimica industriale. Il settore offriva grandi opportunità professionali. Perciò mi iscrissi a chimica. Dopo un anno, Vittorio Carassiti mi convinse che il futuro era la fotochimica, cioè il modo in cui la luce agisce sulla materia. Il padre di questi studi era stato proprio Giacomo Ciamician. E mi sembrò la ripresa ideale di un progetto che intuivo importante”.
E che aveva al centro lo sviluppo dell’energia?
"Ho pensato spesso all’energia come alla forma principale della vita. Da bambino guardavo al movimento come a qualcosa che non fosse solo il mero effetto di una causa, ma il risultato di un’energia spesa”.
Un bambino già concentrato sul proprio futuro?
"Non avevo idea di che cosa avrei fatto. Sono cresciuto negli anni della guerra. A Forlimpopoli, dove sono nato, assistetti, con mio fratello, alla ritirata dei tedeschi. Minarono tutto il paese per rallentare l’avanzata degli alleati. Alla fine ci fu il contrordine e nessuno del comando si prese la responsabilità di farci saltare per aria. Ebbi la sensazione che i tedeschi avevano perso la guerra”.
Cosa accadde dopo?
"Ci fu un comprensibile entusiasmo. La gente ballava nelle strade, si abbracciava, vociava e cantava. Poi si consumarono alcune “vendette”. Dalla finestra di casa vidi bastonare a sangue un noto fascista. Lo raccolsero esanime e lo gettarono in un cassonetto, o qualcosa di molto simile. Nel dopoguerra crescemmo impetuosamente. Feci il liceo scientifico a Forlì e come le dicevo l’università a Bologna”.
Lei ha studiato e lavorato nell’infinitamente piccolo. Cosa ha significato?
"Innanzitutto farei una distinzione tra i fisici e gli ingegneri da un lato e i chimici dall’altro. I primi sono quelli che, nell’ambito dello studio delle nanotecnologie, sono passati dal grande al piccolo”.
Come è accaduto con il computer?
"I primi calcolatori occupavano lo spazio di un appartamento, poi si sono progressivamente ridotti. Questa è stata la miniaturizzazione dall’alto. Il chimico invece “miniaturizza” dal basso”.
Ossia?
"Il contributo allo sviluppo delle nanotecnologie si svolge tutto nel mondo micro. Non inizia dall’alto ma è lì, nelle profondità della materia, che opera studiando e scoprendo sistemi supramolecolari”.
Con quali strumenti può lavorare dentro questi sistemi?
"Servendosi innanzitutto della luce”.
Le furono perciò utili gli studi di fotochimica?
"Mi sono laureato su alcuni impieghi della fotochimica, ed eravamo talmente pionieristici che alla fine degli anni Sessanta arrivò una lettera da Londra della Academic Press nella quale proponevano di scrivere un libro sulla fotochimica dei composti. Non esisteva niente sull’argomento. Nel 1970 con Cassiti pubblicammo questo libro. Ebbe un tale successo, soprattutto in America, che qualcuno lo ha definito la Bibbia della fotochimica”.
Questa fu la base, poi che accadde?
"Siamo cresciuti, poi, verso la fine degli anni Ottanta, venne dato il Nobel per la chimica al francese Jean-Marie Lehn. Fu un riconoscimento importante perché Lehn è stato tra gli artefici del passaggio dalla chimica alla chimica supramolecolare”.
Il passaggio voleva dire cosa?
"Mentre prima si studiava una singola molecola in soluzione, dopo Lehn si comincia a studiare un insieme di molecole. Di solito faccio questo esempio: paragono le lettere del linguaggio agli atomi della chimica. Gli atomi sono già associati in molecole e queste le possiamo definire le parole della chimica”.
Chiaro, ma fin dove spingerebbe il paragone?
"Come le lettere del linguaggio non puoi metterle a caso, senza perdere il senso della frase, così in chimica gli atomi devono legarsi tra loro in un certo ordine se si vogliono ottenere delle informazioni”.
Una struttura molecolare ha un proprio disegno interno?
"A volte le molecole si incontrano e poi si lasciano, altre ancora stanno assieme e creano un sistema supramolecolare”.
Mettono su famiglia!
"Sono famiglie, per usare la sua immagine, con diverse scale di complessità. Frutto di numerose combinazioni”.
Forse la complessità più alta si ha con il passaggio dall’inorganico all’organico.
"In laboratorio nessuno è riuscito a realizzare questo passaggio”.
Cioè creare la vita?
"Il corpo umano è estremamente complesso. Ci sono più atomi in esso che lettere in centomila miliardi di biblioteche”.
Come hanno fatto a trovare un ordine?
"Spiegarlo è di una complessità suprema. Gli atomi sono formati da molecole che a loro volta creano sistemi supramolecolari sempre più grandi. E già qui il grado di previsione umana diventa molto approssimativo. Dopo si passa alle cellule, ai tessuti, agli organi e agli apparati. Questa è la vita umana: una stupefacente combinazione chimica di cui sappiamo pochissimo”.
Per questo è passato a occuparsi di energia?
"L’energia appartiene alla vita. Quelle che i nostri sistemi utilizzano sono fonti che si esauriranno. Il petrolio e il gas finiranno. Cosa faremo a quel punto? Alla metà degli anni Settanta cominciammo a lavorare alla fotosintesi artificiale. Nel 1975 con un articolo su Science demmo qualche linea guida. Eravamo pionieri e per decenni ci siamo rotti la testa per arrivare a qualche risultato incoraggiante”.
Puntavate sull’idrogeno come sostituto dei combustibili fossili?
"Più o meno, anche se le cose sono molto più complicate di chi pensa che l’idrogeno è una forma di energia abbondante, pulita e perfino democratica”.
Non è così?
"In teoria sì, ma non ci sono sulla terra giacimenti di idrogeno molecolare. Quello che è abbondante in natura è l’idrogeno combinato con altri elementi, per esempio con l’ossigeno nelle molecole d’acqua. E l’acqua, come è noto, non brucia, semmai spegne”.
Però l’idrogeno si può estrarre dall’acqua, no? 
"Per farlo occorre la stessa quantità di energia che poi l’idrogeno può generare come calore quando brucia l’ossigeno. È come la tela di Penelope”.
E allora?
"La prospettiva può cambiare radicalmente se si trova un modo per produrre idrogeno dall’acqua usando una fonte di energia abbondante, rinnovabile e non inquinante: l’energia solare. È qui che la fotosintesi artificiale potrà dare i risultati più efficaci. Ma siamo ancora distanti dagli obiettivi”.
Magari il Nobel glielo daranno per questi suoi nuovi studi.
"Quando annunciarono l’altro, come le ho detto ci rimasi male. Avemmo telefonate e mail di solidarietà da tutto il mondo. Ma penso che per ottenere il Nobel non basti l’abnegazione, l’intelligenza, la scoperta. Occorre fare squadra. Mentre l’Italia difficilmente riesce a farla. Sa la barzelletta di un italiano, un francese, un inglese, un olandese? Tutti e quattro su una torre, dovevano buttarne giù uno. Secondo lei chi avrebbero sacrificato?”.
Non le è venuta la tentazione di mollare tutto?
"No, la ricerca è stata tutta la mia vita. Avere un riconoscimento per quanto prestigioso è solo un piccolo dettaglio. Niente più”.
La ricerca è disinteressata?
"Deve esserlo, anche se uno scienziato sa che la scienza non è innocente. La scienza non si occupa di valori, ma di fatti”.
Ma in pratica?
"Uno scienziato non può lavarsi le mani. Esiste sempre una qualche forma di responsabilità in chi fa ricerca e non solo in chi la usa. Le racconto due piccoli episodi. Parecchi anni fa ricevetti una lettera dall’esercito americano. Mi invitarono a discutere con loro alcune ricerche che stavamo facendo intorno ai dendrimeri”.
Cosa sono? 
"Molecole ramificate che studiavamo per imitare in natura la fotosintesi naturale. Avevano scoperto che grazie a quei composti molecolari potevano ottenere degli esplosivi molto più potenti. Naturalmente mi rifiutai di collaborare”.
L’altro episodio?
"Risale al tempo dello scudo spaziale. Gli americani erano giunti alla conclusione che i russi potevano lanciare dei missili intercontinentali. Per intercettarli pensarono di poter usare il laser che viaggia alla velocità della luce. A quel tempo ero direttore di dipartimento al Cnr. Ci arrivò una richiesta dell’ambasciata americana in cui si chiedeva quali laboratori in Italia erano in grado di costruire laser potentissimi. Anche in questo caso la risposta fu un rifiuto”.
Uno scienziato deve saper distinguere tra guerra e pace?
"Quando a Enrico Fermi obiettarono che le sue ricerche avrebbero permesso la costruzione della bomba atomica, chiese, a quanto pare, di essere lasciato in pace perché la fisica è troppo bella! È ovvio che uno scienziato non può prevedere tutto; ma quando si accorge che qualcosa della sua ricerca può essere usata male allora deve avere il coraggio di opporsi”.
Lei crede in Dio?
"Sì e non ritengo ci sia contraddizione con il mio lavoro di scienziato. La scienza dà risposte sul come non sui perché. Si può pensare che l’universo sia nato dal Big Bang che diventa energia, materia e infine vita umana. Posso ritenere ineccepibili tutti i passaggi dell’evoluzione. Ma cosa c’era prima del Big Bang? Se devo considerare che noi siamo il frutto di un giorno senza ieri, allora posso anche tranquillamente credere in Dio”.
Con quali conseguenze? 
"Non smetto di essere uno scienziato. Dico solo che se parlo di finalità si può evocare una presenza esterna alla scienza. Scienza e fede mi piace immaginarle in contrasto come le quattro dita di una mano e il pollice. Solo usandole insieme è possibile una visione completa. Poi, sa, la fede è un’esperienza complicata. Mi danno fastidio gli scienziati e i teologi che vogliono dimostrare tutto. Pensi per un attimo alla vita e alla morte. Cosa sono?”.
C’è una risposta univoca?
"La vita è una straordinaria combinazione chimica, se la guardomaterialmente. Ma la chimica può spiegare Bach o Beethoven; Piero della Francesca o Van Gogh? È tutto nello spartito, nella tela o c’è qualcosa di più? È su questa domanda che la mia meraviglia cresce e può accettare il mistero”.