la Repubblica, 9 luglio 2017
Perché lo Strega è lo Strega
E così arriva il momento in cui un romanzo si impone, un editore si impone, un gusto si impone. Quest’anno tocca a Le otto montagne di Paolo Cognetti. Il Premio Strega è sempre (o quasi sempre) riuscito a far leggere l’opera che ha premiato, e a creare una dinamica imitativa che, fascetta o meno, ha fatto entrare lettori e consumatori in libreria. È di fatto un moltiplicatore che agisce sul mercato attraverso la comunità allargata dei lettori. Una vittoria implica un flusso di ristampe per l’editore ma soprattutto innesca un passaparola che, quando la narrazione è veramente efficace, “lavora” fino all’anno successivo. “Mi leggo lo Strega, quest’estate” è un tormentone tuttora vivo, e spesso taglia titolo e autore per lasciar emergere il Premio. Al netto delle puntuali polemiche che hanno nutrito tutte le sue stagioni. I pacchetti di voti, le telefonate degli editori ai giurati, le promesse fatte, quelle palesemente tradite, il coinvolgimento degli uffici stampa (veri grandi protagonisti della triangolazione autore/editore/premio) e da qualche anno a questa parte di professionisti ingaggiati con il compito di interrogare i giurati, rammentare ai giurati, consigliare i giurati.
Sembra un paradosso ma non lo è: la massima opacità dello Strega finisce con il coincidere con la sua massima trasparenza. Tutti sanno quello che sta succedendo, e lo sanno come impettiti, diplomatici nelle gallerie di specchi della Versailles di Luigi XIV, come aristocratici sospettosi della Pietroburgo post decabrista, come asburgici funzionari messi di fronte ai Fatti di Mayerling. Silenzio, sussurro, e quando va bene, riccioli di ironia.
Ma in fondo a questa strada c’è un romanzo che imbocca la strada della risonanza. L’autore leva la bottiglia gialla sul palco, ingolla un sorso, il miracolo è fatto. La grande macchina delle trame si ferma e sembra una betoniera abbandonata fuori dal Ninfeo (e, a proposito, bentornati al Ninfeo). E allora?
E allora fatemi ricordare: quest’anno ci sono stato anch’io. Dall’altra parte. Per la prima volta. Non è stata una decisione semplice acconsentire. Ho fatto della mia ricognizione su Milano e sulla mia generazione un’opera che il mio piccolo, nobile editore salentino ha voluto chiamare romanzo. E così, si va allo Strega. E lo Strega, per chi non lo sapesse, comincia a Benevento dove il celebre liquore si produce. Lì sotto l’arco di Traiano ho rammentato come mi trovassi a far parte di una dozzina in cui comparivano miei ex autori, autori che avrei voluto pubblicare, autori che avrebbero voluto essere pubblicati e autori che sono autori della casa editrice in cui lavoro da sei mesi. Ci sono stati tempi in cui entravano anche cinque autori della stessa casa editrice (Feltrinelli nell’edizione 1959 che vide trionfare Il Gattopardo). Ci sono stati tempi in cui nelle case editrici lavoravano scrittori, intellettuali, studiosi: un gran fermento che la selezione del Premio rifletteva.
Quest’anno eravamo in due – dato che concorreva anche Ferruccio Parazzoli, figura chiave della casa editrice Mondadori ma scrittore da sempre: ciò non toglie che mi sentissi un po’ solo con i miei trent’anni di lavoro editoriale alle spalle, a reggere lo scarto che comunque agisce fra editor e autore. Ma il mondo è largo. C’è spazio per fare anche questo genere di esperienza. E a quel punto è cominciato il teatro delle anime. Ti trovi a fianco persone, spesso meravigliose, che ci tengono, che hanno sudato sulla pagina, che hanno messo il cuore nella scrittura e improvvisamente si scoprono con una faccia diversa, con una faccia “stregata”. Bewitched, come in una canzone di Rodgers e Hart. E non sono cominciate oggi quelle facce. Non è un caso che il Premio abbia dedicato un libro fotografico ai vincitori. Personalmente rammento, fra le facce, quella smagliante di blues della vittoria di Mimmo Starnone, quella torva di beatitudine di Maurizio Maggiani, quella lucida e ansimante di Ugo Riccarelli, quella tutta raccolta nelle pieghe ai lati della bocca di Nicola Lagioia, e fuori dai vincenti, quella severa e scavata di Vittorio Sermonti, quella indagante e sorniona di Paolo Sorrentino, già presago della “mostruosa” bellezza sociale che dal Ninfeo avrebbe reinventato su una terrazza romana, e soprattutto quella di fanciullo un po’ sgomento e un po’ ferito del grandissimo Ermanno Rea che nel 2008 il vincitore Paolo Giordano voleva accanto a sé sul palco. Quando me ne parlava negli anni seguenti, Rea alzava le spalle: non recriminava e non snobbava – era ormai contento di star fuori dalle competizioni o comunque pensava che avrebbe dovuto battersi (e lo ha fatto) su altri piani della promozione editoriale. Già, gli sconfitti. Fanno parte della storia del premio. La faccia stregata la portano anche i giurati e funzionari editoriali: per quanto abbiano brigato, per quanto si siano spesi, la notte del Ninfeo hanno la grimace della sfida lanciata, il furore dei voti che non sono arrivati, il sentore desolante di aver “portato” il romanzo “sbagliato”, l’incerta postura di chi non ha potuto portare a compimento la promessa di voto.
Ci si volge indietro e la galleria di ritratti si allunga in una prospettiva infinita: c’è tutta la narrativa italiana del dopoguerra nel “catalogo” degli scrittori che sono stati selezionati, anno dopo anno, dopo il fatidico 1947 che vide la vittoria di Ennio Flaiano con Tempo di uccidere, edito da Longanesi. Forse allora una faccia “stregata” era ancora prematura, ma è già evidente, quasi dieci anni dopo, nella pensosa gratitudine di Giorgio Bassani, nella gioia vaporosa di Elsa Morante che indica sulla lavagna la sua Isola di Arturo, in quella di Paolo Volponi seduto accanto a Pier Paolo Pasolini in attesa dello spoglio (nel 1955 era stata fondata la rivista Officina e Pasolini aveva voluto la collaborazione dello scrittore urbinate).
Sono foto di una festa quelle che arrivano dal passato, e raramente si contempla l’altra metà della ideale “sala da ballo”. Che pure esiste. È come se ci fosse qualcosa di favoloso nella partecipazione al Premio, come se l’Istituzione Culturale che esso è diventato accendesse un incanto, gettasse una malia ( siamo in fondo dentro i parametri della fiaba di Cenerentola e tutto finisce – o tutto comincia – dopo la mezzanotte). Vincitori e sconfitti sono messi al riparo dall’incertezza, perché, se è pur vero che il Premio non canonizza, certamente disegna la dinamica di una affermazione che si ripete, puntuale, ogni anno. Lo scrittore è condotto ogni volta a palazzo. Perciò “vien su” una faccia particolare, quella che pregusta, che smania, che si colma di attesa. Ha il premio un nesso con la qualità? Ma certo che ce l’ha. Ce l’ha, perché osa, e seleziona. Comunque lo fa. Quando quell’osare e selezionare fossero pure motivo di protesta e di ingiustizia, l’innesco del tema della qualità è fatto. Da lì si può cominciare a discutere, proprio alla maniera antica, magari fuori dal legittimo articolare della critica, dove “lavora” il basico duello fra “mi piace”, “non mi piace” – che è l’utensile molto concreto, per nulla magico, della comunità dei lettori. Comunità di cui facciamo parte, editori o autori senza distinzione di ruolo. Ho guardato con curiosità i miei nuovi “colleghi”, quest’anno: lo facevo da infiltrato, e la cosa era, a suo modo, interessante. Come stare in un acquario, e malgrado l’ovidiana metamorfosi si sentiva in controluce la persona: e della persona il tormento, il sospetto, la fragilità.
E la letteratura? Lo si dovrebbe usare con parsimonia questo termine. La letteratura è ciò che resta del lavoro sulla parola, non ne è mai la premessa. E “ciò che resta” va al di là di un premio, anche di un premio importante come lo Strega. Nell’estate del 2005 ho avuto la fortuna di portare a pranzo nella sua Elba, trattoria sospesa sul mare, Anna Maria Rimoaldi. Ne hanno dette molte su Rimoaldi. Incuteva rispetto. Sapeva cosa fare, e come. Ma quel rispetto – l’ho compreso bene allora, all’ombra dell’uva fragola – succhiava linfa da una sensibilità per le forme della narrazione a cui non è stata quasi mai tributata abbastanza attenzione. E lei per l’appunto riusciva a parlare di che pasta erano fatti i romanzi, non di “letteratura”. Come dire che il verdetto passa dal premio ai lettori e soprattutto ai lettori che verranno.
La betoniera della macchina Strega ora si è fermata. Mi torna in mente lo struggimento creativo del protagonista de Il soccombente di Thomas Bernhard. “Perché noi crediamo sempre di essere autentici e in realtà non lo siamo, e di essere concentrati e in realtà non lo siamo”. Spenti i clamori, ciascuno è lì che deve tornare, augurandosi di non incrociare mai (o di non rendersi conto che ha incrociato) un Glenn Gould, che, come accade nell’opera di Bernhard ridimensiona ogni talentuosità, attraverso la necessità dell’espressione e la semplice verità della bellezza.