la Repubblica, 9 luglio 2017
I due della Kotiomkin
Era un qualsiasi giorno dell’autunno del 1974 quando, all’uscita da scuola, un tipo mai visto prima mi venne incontro chiedendomi se ero “Manuele, er fijio de Luciano”. Poi, senza troppe cerimonie, mi invitò frettolosamente a sedermi sul sedile posteriore della sua auto e sfrecciò via: «Papà t’aspetta sur set. Nun è potuto veni’. Se scusa. Oggi c’hanno da gira’ ‘na scena complicata».
Giungemmo a un bizzarro accampamento sulle rive di un lago (Bracciano) di fronte a un curioso e variopinto assembramento di diverse umanità che appariva essere, ai miei occhi di bambino, come una festa di paese o una sagra. Dopodiché venni confinato dentro a una roulotte con la raccomandazione di fare il bravo e fare i compiti. Disinteressato alla cordiale proposta, mi spinsi verso la finestra da cui scorsi dei grossi fari con delle luci potentissime che illuminavano un paio di buffe persone che cercavano di montare una tenda. Una di queste nel tentativo di piantare un picchetto, diede una martellata sul pollice dell’altro e allora quest’ultimo prese e cominciò a correre lontano, ululante dal dolore. Poi sbucò fuori mio padre gridando qualcosa, tutti si fermarono e anche quello col pollice offeso smise di correre e tornò indietro. Papà gli diede delle indicazioni e quello si rimise tranquillo ad armeggiare col picchetto, poi arrivò quell’altro che gli diede di nuovo una martellata sulla mano e lui si rimise a correre strillando. Allora papà gli disse delle altre cose e lui buono buono tornò a provare a piantare quel picchetto, ma l’altro, che aveva degli occhiali molto spessi ed era chiaro che ci vedeva poco, gli diede un’altra martellata sulla mano e poi ancora un’altra e un’altra ancora… andò avanti così per tutto il giorno. E io non capivo perché mio papà ci tenesse così tanto a far prendere tante martellate a quel tipo. Avevo otto anni: non sapevo cosa fosse un film, non sapevo che quei due buffi personaggi si chiamavano Fantozzi e Filini, che a interpretarli erano Paolo Villaggio e Gigi Reder, che il loro film si sarebbe intitolato Fantozzi e che era pure comico.
Sono passati più di quarant’anni da quel giorno e ora sono a casa, quando squilla il telefono: è il mio amico Andrea che mi dice di accendere la tv: il sottopancia di un tg comunica che ad 84 anni è morto Paolo Villaggio.
Andrea è al tempo stesso commosso e indignato: dice che i commentatori stanno ricordando ovviamente la figura di Villaggio, l’importanza di Fantozzi nella storia del costume italiano e le collaborazioni con Fellini, Olmi, Monicelli, Wertmüller.
«E tuo padre? Nessuno lo ricorda?», mi chiede.
«Guarda che è Paolo Villaggio che se n’è andato. Papà oramai è morto da tanto tempo. E, quando due anni fa fecero l’omaggio a Fantozzi alla Festa del cinema di Roma, per i suoi quarant’anni, di mio padre si erano dimenticati proprio tutti».
«Quando proprio Salce venne chiamato alla regia di Fantozzi, dopo tanti tentativi di trasporlo sullo schermo…».
«Non ti dimenticare di Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi, almeno tu…».
«Ma no, chi se li dimentica? Erano gli sceneggiatori di punta della Cineriz, affidarono a loro il compito di dare forma al progetto».
«Lo sai che l’idea della voce off nacque proprio durante le riunioni di sceneggiatura a casa di De Bernardi, mentre Paolo leggeva le didascalie? Tutti scoppiavano a ridere: “Gli è perfetta così! La si tiene”. Decisero assieme a papà».
«Ecco, appunto. Stavo dicendo che tuo padre diede un’architettura visiva coerente all’umorismo dei racconti di Villaggio, che è iperbolico. Ha costruito un sistema compiuto in cui ogni elemento è teso nella direzione dell’iperrealismo…».
«Iperrealismo?».
«Certo. Ogni dettaglio realistico, ingrandito e deformato, crea un immaginario abnorme. È nello stesso tempo l’amplificazione di un mondo mostruoso e lo specchio caricaturale dell’Italia contemporanea. Se Fantozzi diventa, nell’ultimo quarto del XX secolo, la maschera definitiva dell’italiano medio, è anche perché la regia sa mettere in maschera, per svelarne la crisi irreversibile, l’Italia degli anni Settanta».
«Cioè? Non potresti essere più chiaro, invece di fare sempre lo storico del cinema?».
«Ti faccio qualche esempio. La deformazione è sempre leggera e inesorabile: nei primi due Fantozzi gli ambienti impiegatizi sono squallidi, gli interni aristocratici giganteschi, ma tutti sono legati da un’illuminazione sgargiante, dichiaratamente ispirata alle tavole a fumetti del Corriere dei Piccoli. Il direttore della fotografia, Erico Menczer ebbe l’indicazione di girare tutte le scene con la luce diffusa, senza ombre né controluce: il risultato è una sensazione di irrealtà che serpeggia in ogni momento del racconto. E poi i personaggi del mondo di Fantozzi sono costruiti come una galleria di mostri che accomuna il mondo piccolo borghese alle classi di potere. Ci sono sintesi memorabili: nel Secondo tragico Fantozzi il locale più “in” della capitale, il Cica-Cica Boom di via Veneto, diventa lo squallido scantinato con improbabili entraîneuse dell’Ippopotamo».
«C’è un tipo in tv che sta continuando a parlare della Corazzata Potioskin. Ora lo chiamo e gli dico che il titolo originale è La corazzata Potëmkin, e che nel Secondo tragico Fantozzi la si nomina come “Kotiomkin”, per problemi di diritti. In ogni caso, così come la chiama lui, non esiste».
«Pensa cosa sarebbe stato l’urlo liberatorio di Fantozzi, “La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”, se non ne fosse stata rigirata una versione personale».
«I sovietici non concedevano i diritti del Potëmkin: era un film intoccabile, un caposaldo della cultura di regime».
«La sequenza della scalinata di Odessa, così com’è stata rigirata, è talmente identica all’originale che ha tenuto sotto scacco per anni gli spettatori, convinti che fosse davvero la scena del film di Eisenstein».
«Anche se a un occhio maniacale come il tuo non sarà sfuggito il tombino romano in fondo alla scalinata…».
«E poi nel film la sequenza è riproposta una seconda volta, rigirata in presa diretta, come punizione dantesca inflitta agli impiegati che si erano ribellati alla visione imposta dal cineclub aziendale».
«Realtà e finzione si incrociano e si sovrappongono: il film di Eisenstein è comunque uno “strumento di tortura”».
«Villaggio affermava che la sua battuta epocale ha anticipato la fine del comunismo reale».
«Comunque va bene: papà è stato importante per Villaggio. Ma sarà vero anche il contrario, o no?».
«Avevano due spiriti affini, e probabilmente il loro sodalizio è stato l’ultimo esempio di collaborazione fruttifera tra un grande attore e un grande regista del cinema comico italiano: dopo di loro ci saranno solo comici che si dirigeranno da soli, fino all’esaurimento di qualsiasi ispirazione satirica nell’appiattimento para- televisivo. Villaggio ha cambiato il cinema e il costume italiano del Novecento; ma tuo padre tenta con lui un’operazione simile a quella riuscita con Tognazzi all’inizio degli anni Sessanta: farne una sorta di alter ego dell’italiano medio contemporaneo, travolto da una crisi ormai irrefrenabile».
«Anche al di là del personaggio di Fantozzi…».
«Infatti… Oltre ai primi due capitoli della saga, i due lavoreranno assieme in altri quattro film e gireranno un episodio di Dove vai in vacanza?, intitolato Sì buana, tratto da un racconto di Hemingway: una fotografia perfetta della volgarità dell’Italia pre-berlusconiana…».
A questo punto è caduta la linea.
PS: O meglio. Sarebbe caduta la linea, se questa telefonata fosse intercorsa tra noi. Cosa che non è mai accaduta. Ma queste righe contengono le cose che certamente ci saremmo detti qualora fosse avvenuta.