la Repubblica, 9 luglio 2017
«Io, ragazzo a Wimbledon». Ricordi di Gianni Clerici
Ho posseduto una casetta lungo Church Road, la strada che dalla Chiesa conduce ai recinti di Wimbledon, lungo il golf che, nella quindicina del torneo, viene occupato dal parcheggio. Ero capitato a Wimbledon, per la terza volta nella mia vita, con l’intenzione di trasferirmi a Londra quale vicecorrispondente del Giorno, diretto dal Signor Italo Pietra, che mi aveva detto «Lei Clerici, che parla un po’ d’inglese, vada a perfezionarlo, tra le visite al British Museum e quelle ai campi di Wimbledon». Nella casetta, durante la quindicina, si poteva a stento dormire per le rumorose file dei catecumeni di tutto il mondo che giungevano con la speranza di acquistare uno dei tremilacinquecento biglietti in vendita per chi, di biglietto, era privo. L’acquisto dei biglietti veniva di solito concesso a chi – sangue nobile a parte, possessori di quote del Club a parte – inviava l’equivalente del costo di due numerati, entro il mese di febbraio, partecipando così a uno straordinario ed enorme sorteggio. Un mio amico, dopo aver spedito l’ammontare dei biglietti sette volte, e averlo avuto di ritorno, fece la coda dei catecumeni, e fu più fortunato.
Dicevo della coda notturna e delle mie veglie per ammirare gli innamorati di Wimbledon che, tra tutti i tornei, è l’unico ad avere il privilegio di esistere dal 1877, da quando gli inglesi reiventarono il tennis, tenuto a battesimo nei paesi mediterranei nel quindicesimo secolo. Lo reinventarono grazie all’importazione della gomma dal Sudamerica, gomma che faceva rimbalzar la palla molto meglio del cuoio ricolmo di capelli dei miei avi, e trasferirono così i campi lastricati di pietra sui praticelli sui quali si svolgono i Championships.
Ma dicevo di me stesso, sperando di non annoiare troppo il lettore. Ero già stato a Wimbledon da bambino, condottovi da mio padre, un sant’uomo che mi aveva avviato al tennis ad Alassio, altro mio soggiorno, nel club eretto e diretto da Lord Hanbury, socio dell’All England Club. Quel viaggio indirizzò in parte la mia vita, dopo che la segretaria, la Signora Gordon Cleather, ci fece visitare tutto il visitabile e, soprattutto, ammettere al Royal Box, dove sedeva la Regina e, più sovente, i duchi di Kent, presidenti onorari. Ho raccontato Wimbledon in modo più diffuso in Wimbledon. Sessant’anni di storia del più importante torneo del mondo, libro che ha avuto una fortunata diffusione ma che, come tutte la biografie, dimentica qualche aspetto.
Così la mia gita da bambino, il mio possesso di una casa, ahimè venduta, si mescolano ad altri ricordi. Il mio malriuscito tentativo di diventare un campione di tennis, al quale pensai sino a quindici anni, quando un altro giovane italiano, Fausto Gardini, prese a battermi nel club della città dove sono nato, Como. Riuscii solo una volta a essere accettato nel tabellone di singolare (allora non era ancora stato inventato il computer e un gruppo di esperti gentiluomini decideva chi potesse essere accolto nel tabellone). Per risparmiare, mi recai a Londra su una Fiat 500, una Topolina, fui regolamente battuto in primo turno, ma il mio nome rimane in qualche ricordo se, per disinformazione, fui il solo a ottenere il riposo dopo i primi tre set, come non era lecito, né lo è tuttora. Giocai addirittura, se non sul Center Court, sul Court One, ora distrutto e ricostruito, insieme al mio povero partner di doppio Orlando Sirola, contro i due australiani che avrebbero vinto il titolo, Rose e Hartwig. E, anche lì, entrai nei record per aver vinto una sola volta il servizio. Una saggia e grave malattia mi impedì di continuare nel mio fallimento tennistico, e la storia riprese con il primo anno del Giorno, il 1956. Fui il primo giornalista italiano ammesso alla Press Room e, almeno di quello, mi posso vantare. Vado in tribuna ogni anno, a eccezione di quelli occupati da varie malattie e quindi, secondo i miei calcoli, dovrei essere giunto alla cinquantasettesima presenza. Speriamo continui, almeno per un po’.