la Repubblica, 9 luglio 2017
La bellezza di essere Roger Federer. Alessandro Baricco è stato a Wimbledon e qui racconta cosa ha visto
Ci sono molti modi per scoprire cos’è la solitudine, ma solo due prevedono che lo si faccia in compagnia di un’altra persona e costretti in pochi metri quadri: il matrimonio e il tennis. Entrambi godono, giustamente, di una vasta platea di appassionati. Dato che questo non è un articolo sul matrimonio, per scriverlo mi son portato, giorni fa, nella zona sud ovest di Londra dove, da 140 anni, si celebra il torneo di tennis più famoso del mondo: Wimbledon. Ovunque ci sia un ragazzino che palleggia contro un muro, ovunque ci siano mammine che mugolano da fondocampo e prepensionati che tentano di ammazzare i loro simili attirandoli a rete con smorzate di inusitata perfidia – ovunque ci sia nel mondo qualcuno che fa titic e titoc con una racchetta in mano, è a Wimbledon che il suo faticare assume un senso, i suoi errori incontrano una redenzione, e le sue miserie scolorano nella gloria. Non sto esagerando, le cose stanno proprio così. Giuro che se Dio giocasse sarebbe socio lì, e non avrebbe neanche l’armadietto migliore.
Naturalmente non è un posto alla mano, dove si possa fare un salto, allegramente, improvvisando. Andare a Wimbledon è un pellegrinaggio. Forse per questo, l’ho sempre rimandato – ho dei problemi coi pellegrinaggi. Tuttavia è lì che mi son trovato, lunedì scorso, e questo perché nel frattempo, sotto l’incidere degli eventi, avevo maturato la penosa ma incurabile convinzione che avendo dedicato una buona parte della mia vita a studiare il mistero della bellezza era imperdonabile non avere ancora visto giocare Roger Federer. Dal vivo, dico. Vederlo proprio, in carne ed ossa. Non aveva senso.
Roger Federer, lo dico per chi ne fosse solo marginalmente informato, è il più grande giocatore di tutti i tempi, e incredibilmente lo è proprio adesso, mentre siamo vivi e lo possiamo vedere.
Mi sono perso la Callas, Muhammad Ali era troppo lontano, Bobby Fischer è uscito di testa quando ancora andavo al liceo: con Federer non mi fregano, ho pensato.
Personalmente, ero già pronto per vederlo a Parigi: ma io c’ero, lui no.
Insomma, Wimbledon. Si vede che era destino.
Ho fatto la valigia e sono andato. Ricordo distintamente che per un attimo mi sono posto il problema se per caso non fosse obbligatoria la cravatta, per entrare.
Fatta eccezione, forse, per la sala da pranzo di mia madre, non vi è niente di più ordinato, al mondo, di Wimbledon. Anzi, a essere precisi non è neanche una questione di ordine: è piuttosto l’inaudita pretesa di ricondurre a una disciplina certa ogni frammento della realtà, che siano i fiori di un’aiuola o il flusso di migliaia di persone quando parte l’acquazzone. Si son messi lì e per ogni increspatura delle cose hanno trovato la soluzione migliore, fissato una cura millimetrica, decretato una procedura senza scampo: in questo dettando la linea a tutti gli altri tornei del mondo. Senza perdere tempo a dubitare, applicano ciò che hanno imparato da anni di osservazione, e lo fanno per lo più in divise impeccabili che annunciano nella perfezione dei dettagli l’avvenuta sospensione di qualsiasi trasandatezza. Disponendo evidentemente di molto tempo e di una superiore indifferenza alle umane tragedie, si sono applicati a problemi che solo in un mondo molto particolare potrebbero ambire a un nome del genere: il sistema più veloce per montare e smontare una rete, la distanza a cui stare nel tenere un ombrello sulla testa di un giocatore seduto nel cambio campo, il grado di immobilità e invisibilità che deve raggiungere un giudice di sedia (e modi per ottenerlo). C’era ad esempio da stabilire come appoggiare, durante il gioco, l’asciugamano che un solerte raccattapalle porge ai giocatori tra un punto e l’altro: appenderlo a un apposito attaccapanni?, piegarlo in due?, lasciarlo lì come capita (orrore)?, tenerlo sulle spalle? Posso immaginare la riunione dell’apposita commissione. Alla fine, individuato il modo giusto di fare (lo appoggiano, aperto, su una sedia, attenti a non farlo toccare per terra e bilanciandolo bene perché non rischi di scivolare giù), ne hanno fatto un dogma a cui ogni raccattapalle crede ciecamente, ripetuto su ogni campo nello stesso identico modo, fisso come le note dell’inno nazionale: e stiamo parlando di un asciugamano, santocielo.
Gente così, se non si distraeva col tennis, capace che ti invadeva mezzo mondo e si faceva un impero.
Nel cuore di questa liturgia, a motivarla e darle un battito cardiaco, ticchettano i campi, tanti e simmetricamente disposti nello spazio – mirabili tutti nel verde di un’erba che non sembra provenire dal giardinaggio ma da un lavoro di tessitura: ticchettano di palline che vanno e vengono, come lancette, come meccanismi d’orologio. Tutto l’ordine convocato tra quelle mura, e distillato dai mille gesti esatti di ogni lavorante, arriva in purezza nei gesti ultimi di quei sacerdoti che, in bianco, ne raccolgono l’essenza e ricuciono col loro palleggio l’ultimo lembo di caos: la palla fila via veloce, entro le linee comandate, secondo rimbalzi prestabiliti, con suoni rotondi e conclusi – il mondo è salvo, il caos domato, ogni dubbio svanito.
Tuttavia… Tuttavia uno poi stecca, l’altro tira lungo di una spanna, questo fa una palla corta troppo corta, quello non si piega abbastanza sulle gambe, molti scuotono la testa, alcuni smadonnano – tutto il tennis del mondo finisce sempre in un errore, è inevitabile. Lo scopo stesso del gioco, è un errore: gratuito o forzato, idiota o sublime, ma sempre un errore. Quindi, riassumendo, questo sembra essere il piano: mettono su un’enorme cattedrale dedicata all’ordine, costruita fin nei dettagli con la pietra dura della perfezione, e lo fanno per custodire, nel cuore di tutto, un errore. Geniale. Se è vero che tutti gli sport sono una metafora della vita, non è da escludere che la vita sia una metafora del tennis.
Così ogni giorno si svegliano, edificano ordine e allenano la perfezione, in modo maniacale e ossessivo. Nella ripetizione senza domande di ogni gesto, seminano mondi da cui poi, grati, ricevono la gloria del raccolto, inesorabilmente rappresentato dal privilegio di un errore. Fanno tutto questo con antica pazienza e abbigliati con cura. Sono evidentemente pazzi, ma in un modo impeccabile.
È su questo regno, che regna Roger Federer.
La fondamentale differenza tra Roger Federer e gli altri giocatori di tennis del pianeta non è quella che risulta più evidente, cioè il fatto che, alla lunga, lui vinca. Quello è un corollario, talvolta una coincidenza, spesso una conseguenza logica. La vera differenza tra lui e gli altri, come tutti sanno, è che gli altri giocano a tennis, lui invece fa una cosa che ha più a che vedere col respirare, o col volo degli uccelli migratori, o col rinforzare del vento la mattina. Qualcosa che è scritto già da un sacco di tempo, inevitabile, nell’andare delle cose. Qualcosa di naturale. Accidentalmente Federer tiene una racchetta in mano, ma nel vederlo giocare si tende a dimenticare che quella è una racchetta e si è portati a credere che sia una sorta di chela, originariamente posseduta dagli umani, e poi deposta perché evidentemente ritenuta poco idonea alla lotta per la sopravvivenza: deposta da tutti tranne da lui, uscito indenne da secoli di mutazione genetica, per ragioni oscure (deve c’entrare il carattere isolazionista della Svizzera). Così, se guardando gli altri giocatori il piacere è registrare l’abilità incredibile con cui riescono a venire fuori dall’artificiosa situazione di merda cui sono stati condannati (una pallina, una racchetta, tutte quelle righe per terra), guardare lui è qualcosa di affine a vedere un leone muoversi nel suo ambiente naturale: sonnecchia, corre, salta, incidentalmente sbrana una gazzella. Nessuna impressione di forzatura, di fatica, di artificialità. Tutto deve accadere e accade, fine. Una tessera del creato. Federer sbrana tennisti, non gazzelle, ma lo fa con la stessa infinita naturalezza: nei suoi istanti migliori hai come l’impressione, fugace, che i suoi piedi, la racchetta, la pallina e il punto in cui la pallina va a toccare terra siano un unico fenomeno naturale – un arcobaleno, tipo – previsto da secoli, perfino ovvio nel suo disegno, comunque inevitabile: giocargli contro, in quei momenti, dev’essere allucinante.
Il risultato, si sa, è una smagliante bellezza. La possono riconoscere tutti, anche quelli che non sanno neanche cos’è il tie-break. Federer gioca e c’è qualcosa che si stacca dal campo, come dal ring si staccava la leggerezza di Alì, dal palco la verità della Callas e dalla linea dell’orizzonte tutte le albe che ci hanno fatto fermare per un attimo. Non è roba che accade di frequente – molto di rado nella vita vera, più spesso in quelle rappresentazioni parallele di cui siamo maestri, noi umani, e di cui gli sport sono un bell’esempio, magari più infantile di altri, ma ugualmente degno. Pur non cambiando il mondo, ne conservano nondimeno un riflesso smagliante che rende inattuale l’istinto, legittimo, a mandare tutto in mona. Non si vive di tennis, è ovvio, ma molte cose smettono di morire per un attimo, ogni volta che Federer stacca un rovescio lungolinea. Ne sono sicuro.
Molte cose, anche, compaiono dal nulla: pezzi di campo che non c’erano, salti di tempo che non conoscevi, angoli che non risultavano in nessuna geometria. Questa è una cosa che adoro dei grandi, di quelli che sono veramente grandi. Quando dribbla Messi, ad esempio, tu percepisci nitidamente la sparizione in lui di un pezzetto di tempo: lui lo deglutisce e quello sparisce proprio. Se ti capita di nascere in quell’istante, non nasci, secondo me. È un battito mancante, lo stesso che divide eternamente Bob Dylan dal tempo giusto di una canzone e Céline dalla frase che un altro avrebbe scritto e lui invece accartocciava. Rubano un tempo, non so se mi spiego. Altri, il tempo, lo dilatano: Michael Jordan che rimane in aria, le frasi fluviali di Conrad, le melodie di Bellini. Tutta gente per cui il creato è una cosa ancora da finire: per noi è la regola invalicabile del gioco. Per noi se una cosa è solida, è solida: non scriviamo versi liquidi come Petrarca; e se è imprendibile, è imprendibile: non facciamo diventare la luce qualcosa di toccabile, come i quadri di Hopper. Va così. Federer, nel suo piccolo, è uno che genera campo dove un attimo prima non esisteva. O traiettorie indeducibili dalle condizioni di partenza. Giuro che l’ho visto una volta schiacciare da fondo campo e fare punto tirando fuori dallo smash, contro ogni regola fisica, un pallonetto. Non so più chi fosse l’avversario, ma d’altronde neanche lui saprà più chi è, dopo quella palla.
Va registrato che, a commento di prodezze del genere, Federer si concede di solito poco più che un parco gesto del braccio, più o meno quel che faccio io quando trovo parcheggio il sabato sera. Non sembra bisognoso di scaricare alcuna tensione, non ha l’aria di essere troppo stupefatto da se stesso, mai. Da giovane, quando colpiva sotto le gambe, di spalle alla rete, e infilava la gazzella con un passante senza senso, si concedeva una risata, comunque abbastanza educata. Adesso riduce tutto al minimo, e anche questo va a comporre la bellezza inarrivabile del suo tennis silenzioso, felpato, rotondo. Recentemente – da quando sembrava destinato alla china del tramonto e poi è tornato a giocare il miglior tennis della sua vita – lo accompagna un’aura di leggenda che lui porta con grande eleganza. La correda con un velo di distacco, appena un velo, e forse una sfumatura di disincanto, ben dissimulata. Imperturbabile sembra la sua rotta, intatta ogni sua convinzione. Un tempo, chi invecchiava così lo chiamavano eroe, e non moriva più.
Ma non sono più quei tempi, quindi ho trovato un biglietto, ho preso un aereo e sono andato a vederlo da vicino. La prima volta che mi è apparso stava mettendosi la crema da sole. L’ho detto che non sono più quei tempi. C’è questa zona in cui i giocatori si allenano, i campi uno vicino all’altro, i coach che osservano ermetici, marmorei, apparentemente privi di sistema nervoso. Se hai la fortuna di conoscere qualcuno che ti fa entrare, finisci a vedere i giocatori come potresti vedere degli attori dietro le quinte. Adesso non sto a spiegare perché, ma io quella fortuna l’ho avuta e quindi ero lì in mezzo a lustrarmi gli occhi – a un certo punto è passato anche Agassi, che avendo io adorato era un po’ come veder passare il capitano Ahab. Va be’. Per non dire di Becker, piuttosto inguardabile, e soprattutto di Stan Smith, che, giuro, aveva ai piedi le Stan Smith. Ma continuo a divagare. Mi avvicino al campo numero non so cosa e lì c’era il leone, circondato da piccola corte, si stava mettendo la crema da sole in faccia – poi ha preso una racchetta in mano.
Quando ha staccato il primo rovescio – io ero a qualche metro – l’aria ne ha risentito, il mondo si è risistemato di un micromillimetro e io ho percepito il clack con cui quell’istante si incastrava nella mia personale collezione di istanti. Mi son voltato e, per quanto mi riguardava, potevo anche tornarmene a casa.
Tuttavia, il giorno dopo mi son comunque presentato al Centrale – tempio del tennis mondiale – perché nella luce dorata del pomeriggio il leone scendeva in campo per sbranarsi tale Alexandr Dolgopolov, ucraino – si prevedeva lo facesse con la solita eleganza da statua greca. Tutto nello stadio, era impeccabile. Ogni gesto limato al millimetro, ogni liturgia rispettata. I vecchi a regnare nella tribuna d’onore, i ragazzini a imparare l’ubbidienza e l’umiltà facendo i raccattapalle, e i giovani a combattere, in mezzo al campo: sinteticamente fissato, con amabile grazia, vedevo il teorema delle civiltà guerriere, mai confutato, sempre a disposizione nei cassetti della storia. Di passaggio, ancora una volta mi sono ricordato dell’unica cosa che può far inceppare una simile perfetta macchina sociale, e ho salutato il genio del Bardo che le diede un nome per sempre: Amleto.
Poi l’incontro è iniziato e Federer, essendo il sovrano di un regno di pazzi, le prime due palle le ha messe in rete. Normale. L’ucraino tirava delle sassate niente male, dal fondo, e il leone lasciava fare, vagamente sonnolento. Di tanto in tanto la gazzella osava degli angoli maligni e allora Federer si risvegliava ribattendo con un gesto che in altri sarebbe stato elettrico e in lui appariva naturale e inevitabile come la venatura di una foglia. Era quello che più o meno tutti si aspettavano, risultato compreso: 6-3, primo set. Non una discesa a rete, non una smorzata: non era un pomeriggio di grande poesia, diciamo. Ero venuto a vedere Achille, e me lo trovavo lì a lucidare le armi col Sidol.
Anche per questo, quando a metà del secondo set l’ucraino ha informato prima Federer e poi l’arbitro che una caviglia gli faceva male e non ce la faceva a continuare, io l’ho presa perfino bene e neanche mi sono unito al coro di raccapriccio del pubblico, derubato dal mito. Giulivo, me ne sono allora andato in giro per i campi, a farmi insegnare un po’ di tennis da amici che la sanno lunga, e a scoprire giocatorini che un giorno saranno grandi, ma mai come il leone. L’aria era tersa, le gonne delle tenniste corte, e rosa i capelli di certe vecchie signore inglesi. Tutto sembrava rassicurarmi sul fatto che il mondo girava con una rotazione fortissima che l’avrebbe tenuto in campo, nonostante il vento della Storia soffiasse di traverso e l’arbitro continuasse a chiamare out che non esistevano. Sono illusioni che accade di avere, nel regno del Leone.
Sono poi tornato alla vita normale, che nei primi giorni dopo Wimbledon tendi a leggere in modo molto particolare. Stamattina, per dire, io mi trovo al terzo set, avanti di due giochi, e vado al servizio da sinistra. Credo che la metterò al centro, senza stare troppo a pensarci.