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 2017  luglio 10 Lunedì calendario

Poche donne ai vertici e buco nero nei trasporti: ecco le spa degli enti locali

A sfogliare l’ultimo rapporto R&S appena sfornato da Mediobanca viene da chiedersi: decenni di lotte per la parità di genere e siamo ancora a questo punto? Ai vertici delle società pubbliche partecipate dagli enti locali le donne continuano a essere pochissime. Nei consigli di amministrazione la presenza femminile si ferma al 26,8 per cento, ma se la fotografia si limita ai ruoli apicali, quelli cioè dov’è concentrato il potere decisionale, siamo appena al 12,7 per cento, con un ancora più avvilente 11,7 per cento nel caso delle imprese comunali e regionali.

E questo nonostante le norme sulle quote di genere emanate già quasi cinque anni fa, nel crepuscolo del governo di Mario Monti. Il 30 novembre 2012 Giorgio Napolitano firmò il decreto del presidente della Repubblica con il quale si stabiliva una rappresentatività minima di genere negli organi collegiali delle società pubbliche. Le donne avrebbero dovuto essere almeno un terzo: in matematica, il 33,3 per cento. Per dare il tempo di adeguarsi al nuovo sistema era previsto nel primo mandato un tetto minimo del 20 per cento. Formalmente rispettato, a giudicare dai dati: anche se molte di quelle società sono già al secondo mandato successivo alla legge, e comunque le donne al potere, in un Paese nel quale la componente femminile è superiore al 51 per cento degli abitanti, sono ancora rare come le mosche bianche. Prova provata ne è, appunto, il rapporto R&S sulle società partecipate dagli enti locali: su dieci posizioni apicali appena una o poco più è occupata da una donna.

Il tutto, sia ben chiaro, indipendentemente dalla situazione politica dell’amministrazione in quel momento azionista. Prendiamo il caso di Roma, passata negli ultimi due anni dal centrosinistra con un sindaco maschio, Ignazio Marino, al Movimento 5 Stelle con una sindaca donna, Virginia Raggi. Appena arrivata, Raggi ha sostituito il vertice maschile dell’Azienda municipale ambiente (Daniele Fortini), con un’amministratrice unica (Antonella Giglio). La quale è durata però in carica soltanto pochi mesi. Al suo posto c’è ora un consiglio di tre persone, fra cui una donna: il che rispetta la prescrizione di legge di un terzo. Emmanuela Pettinao è però una semplice consigliera, mentre presidente e amministratore delegato è nuovamente un uomo (Lorenzo Bagnacani).

Il caso Acea. Una vicenda simile è accaduta anche all’Acea, società quotata controllata al 51 per cento dal Campidoglio, che aveva un consiglio di amministrazione con quattro donne su nove membri, e una di queste (Catia Tomassetti) aveva l’incarico di presidente. Scaduto l’organo collegiale, è scaduta anche la presidente. Avvicendata da un uomo, Luca Lanzalone: l’avvocato che ha seguito la vicende dello stadio della Roma. Nel consiglio ci sono sempre tre donne su nove, circostanza che anche in questo caso rappresenta il rispetto formale del terzo di legge. Ma senza che quel terzo abbia un vero potere. Le poche donne che occupano ruoli apicali, poi, guadagnano anche meno dei loro colleghi. Nelle 87 imprese prese in esame nel campione di Mediobanca partecipate da 115 fra Regioni, Province e Comuni con una quota non inferiore al 33 per cento e un fatturato di almeno 50 milioni nel 2015, la sua retribuzione è in media di 29 mila euro l’anno contro i 34 mila dell’omologo maschio. Con un’età media leggermente più bassa per le donne in posizione apicale (54 anni) rispetto agli uomini (56).

Il “gap” a Mezzogiorno. Non mancano differenze anche rilevanti fra i vari pezzi del Paese. Se al Nord le donne negli organi collegiali risultano essere il 30,1 per cento a fronte di una media nazionale del 26,8, ecco che al Centro pesano per appena il 23,5 per cento. Mentre al Sud non vanno oltre il 21,9 per cento. E forse è anche a causa della maggiore componente maschile che i compensi medi per queste cariche risultano più elevati in rapporto al Prodotto interno lordo procapite in certe Regioni del Sud. In testa c’è la Puglia, insieme al Lazio. Ma subito seguite da Calabria, Sardegna, Basilicata, Calabria e Sicilia. All’estremo opposto, Marche e Toscana.

Va detto pure che in assoluto le Regioni pagano decisamente meglio degli altri enti. La media dei compensi per le figure apicali nei consigli delle partecipate regionali è di 41.200 euro, contro 28.800 nelle società comunali e 27.900 in quelle provinciali. Sappiamo quanto le polemiche sulle società locali siano ancora violente, tanto per il loro numero elevatissimo (oltre 8 mila, secondo stime del ministero dell’Economia, delle quali almeno 7 mila inutili secondo l’ex commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli) quanto per il livello spesso discutibile della loro efficienza. E se nella sostanza ben poco è cambiato, quel poco comunque si vede. Le nomine, per esempio, hanno risentito delle sia pur timide norme introdotte per limitare il numero delle poltrone. Ha calcolato Mediobanca come nel periodo compreso fra il 2010 e il 2016 le designazioni di persone negli organi collegiali da parte degli enti locali si siano ridotte del 41,1 per cento. Con un calo del 43,9 per cento del monte compensi: risultato tuttavia molto più blando (14,7 per cento) per gli incarichi apicali. E se il risparmio di circa 23 milioni ottenuto nelle società pubbliche analizzate da Mediobanca non è certo da buttare via, i risultati sono tutti da valutare.

Gli utili nell’energia. Vero è che nei cinque anni compresi fra il 2011 e il 2015 le 87 società di cui parliamo, che occupano quasi 150 mila dipendenti, hanno conseguito utili per 2 miliardi e mezzo. Ma è pur vero che quei profitti sono da ascrivere pressoché tutti alle imprese energetiche: il che non è affatto sorprendente. Per contro, la gestione del trasporto pubblico locale si è rivelata un’autentica catastrofe, con perdite per 1,2 miliardi: dei quali 765 milioni soltanto per la romana Atac. Un’azienda letteralmente sommersa dai debiti, con una forza lavoro di 11.857 unità, che riesce a far camminare meno di un mezzo su due. Il settore del trasporto pubblico locale ha assorbito da solo nel periodo considerato una somma dell’ordine dell’uno per cento del Prodotto interno lordo (16,8 miliardi di euro).

Il fatto è che i costi di questo servizio sono coperti per la maggior parte, quasi dappertutto, dai trasferimenti pubblici. Da questo punto di vista, c’è perfino qualuno che sta peggio della disastrata Atac. I fondi pubblici coprono infatti il 62,6 per cento dei costi di esercizio della municipalizzata romana, contro il 70 per cento dell’Anm Napoli, il 74,8 dell’Azienda veneziana della mobilità, l’80,8 per cento del Cotral (la ditta di trasporti regionale del Lazio), l’81,1 dell’Ente autonomo Volturno di Napoli (società che fa marciare le metropolitane partenopee), l’82,8 dell’Amat Palermo e addirittura l’84,9 per cento della Trentino Trasporti Esercizio. All’estremo opposto c’è la chietina Tua – Società unica di Trasporto abruzzese, i cui costi sono assolti dai contributi pubblici appena per il 39,4 per cento. Ma soprattutto la bolognese Tper e la milanese Atm, per cui i fondi dei contribuenti sono limitati rispettivamente al 41 e al 42,2 per cento.

Se si passa invece ai valori assoluti, la musica cambia. In cinque anni l’Atac ha assorbito contributi pubblici per complessivi 3 miliardi e 727 milioni. Ovviamente compresi i 765 milioni necessari a coprire le perdite accumulate nel periodo. Si tratta di una cifra pari al 22,2 per cento di tutti i fondi pubblici erogati nel quinquennio alle imprese del trasporto pubblico locale considerate nell’indagine di Mediobanca: ben superiore ai 2 miliardi e 38 milioni versati a Trenord e al miliardo e 969 milioni della milanese Atm.

I costi del trasporto locale Né può stupire che le aziende di trasporto locale, e soprattutto quelle in condizioni peggiori, siano quelle che presentano i costi più elevati in rapporto alla produzione. Basta dire che all’Atac il costo del lavoro per unità di prodotto si aggira intorno al 113,6 per cento, mentre per l’Ente Autonomo Volturno (che in cinque anni ha perso più di 300 milioni) si arriva al 117 per cento. Semplicemente avvilente il confronto con alcune municipalizzate quotate: l’Acea è al 35,8 per cento, Iren al 49,8, A2a al 52,3, Hera al 52,9. Ancora. All’Atac il valore aggiunto per dipendente ammonta a 39.500 euro, ed è fra i valori più bassi in assoluto, inferiore addirittura ai 41.600 dell’Ente Autonomo Volturno. Al contrario, l’Acea si colloca sui 117.200 euro procapite, Iren a 112.800, A2a a 99.600, Hera a 113.500.

I numeri delle aziende di trasporto pubblico locale denunciano chiaramente la difficoltà di coprire anche il semplice costo del lavoro con i proventi generati dall’attività ordinaria. E da questo aspetto rappresentano il vero buco nero dei Comuni italiani, il settore dove al riparo dei contributi pubblici si annidano gli sprechi e le inefficienze maggiori. Con il risultato di approfondire ancora di più le differenze esistenti fra le aree geografiche del Paese. Nel campione studiato da Mediobanca il costo del lavoro per unità di prodotto è al Sud superiore di oltre 30 punti al Nord. Parliamo del 95,5 per cento contro il 65,1. La causa? È la ricchezza sensibilmente minore prodotta dalle aziende pubbliche locali meridionali: il valore aggiunto per dipendente nel Mezzogiorno si attesta su un valore medio di 44 mila euro, contro 83 mila nel Nord. Poco più della metà, e questo dice tutto.