La Lettura, 9 luglio 2017
Il mecenate torna a casa e Beirut si dipinge la faccia
Beirut non è solo una città. È «un’idea che ha un significato per i libanesi e per l’intero mondo arabo», ha scritto Thomas Friedman. Un simbolo segnato da felicità e da declini. Un’araba fenice, destinata a risorgere mille volte dalle sue ceneri. Un emblema che, nei secoli scorsi, ha rappresentato la coesistenza e la reciproca tolleranza tra comunità religiose differenti. Ma anche un’icona della sofferenza e del male. Un eden. Un incubo. Poi, un eden. Ancora un incubo.
Gabriele Basilico se ne era fatto inquieto «storico» in diversi cicli fotografici. In un reportage del 1991, egli ha offerto paesaggi di dolore e di morte. Scheletri di edifici, strade sventrate. Cumuli di rovine vagamente piranesiani. Fotogrammi da una catastrofe, avvolti in una luce ferma e smaltata, sottolineata da un bianco e nero che, con nitido rigore, definisce ogni dettaglio. Ecco ciò che rimane di una metropoli dopo un crollo. Restano le quinte, riposte in atmosfere di sospensione e di attesa, dense di echi tratti dalle tele di de Chirico e di Sironi. La metafisica, qui, sembra scaturire dal corpo delle cose. Un immenso cimitero, sotto un cielo di piombo. Un catalogo di macerie. Che attestano la fine di un mondo; ma, al tempo stesso, rendono incombenti attimi di quello stesso mondo. Poi, le cicatrici vengono rimarginate. Avvolta dentro un’effimera postmodernità, la Beirut ritratta nel 2003 da Basilico oscillava tra le eleganze di Parigi e gli eccessi consumistici di Las Vegas. Qualche anno dopo questo incanto verrà di nuovo infranto. E il paradiso diventerà inferno. L’araba fenice tornerà nella polvere.
Eppure, è ancora possibile un’altra rinascita. Partendo dal basso. E dall’arte. È quel che crede Ayad Nasser, la cui vicenda ha qualcosa di romanzesco. Nato a Beirut nel 1970, a sei anni, allo scoppiare della guerra civile, Nasser lascia il quartiere di Ouzai. Dapprima, con il padre, si rifugia nel nord del Libano; poi raggiunge la madre a Monaco di Baviera. Dove diventa un potente e facoltoso imprenditore nel settore immobiliare. Con la passione per l’arte. Dopo più di quarant’anni, Nasser ha deciso di ritornare nella sua terra. Con un’ambizione: favorirne il riscatto. Investendo non su centri commerciali ma sulle forme dell’arte pubblica. Si è comportato da mecenate, non da speculatore, destinando oltre centomila di dollari al «rinascimento» del quartiere dove aveva trascorso l’infanzia.
Una scelta che ha precise valenze estetiche e, insieme, politiche. Nasser muove da una convinzione sempre più diffusa a livello internazionale. A diverse latitudini prevale spesso l’inclinazione a trasformare (anche) i contesti urbani più periferici e disagiati in spazi capaci di attrarre. Si perseguono l’insolito, la sorpresa, lo stupore. Si ricercano l’emozione e l’empatia immediata. I luoghi – finanche quelli più marginali – devono riuscire a sedurre. Da più parti, si avverte il bisogno di riscoprire il diritto alla bellezza, pure dove la bellezza sembra non avere più dimora. Ci si affida, perciò, a figurazioni dominate da colori accesi, concepiti come implicite risposte all’impoverimento della realtà. L’ornamento viene inteso non come trucco o maquillage ma, ha scritto Joseph Rykwert, come «luce ausiliaria».
Questa filosofia è all’origine dell’avventura di Nasser. Che ha scelto di investire non su un’area centrale di Beirut, di immediata visibilità, ma su un ghetto. Sulla «sua» Ouzai. Fino ai primi anni Settanta vivace zona a sud della città, oggi baraccopoli segnata da povertà e da sovrappopolazione. Un luogo dimenticato, occupato da case di latta, stratificate una sull’altra, abitate da persone di etnie diverse, costrette a sopravvivere nel disagio.
Il magnate ha chiesto ad alcuni street artist di trasformare Ouzai in un vasto e disomogeneo affresco in progress. Un sillabario di visioni rese attraverso una prosa selvaggia e spontanea. Una pelle su cui imprimere tatuaggi plurali. Un catalogo in divenire di figurazioni ingenue e cifrate, che sembrano urlare. Individui, oggetti, messaggi. Rivelazioni dipinte con la pistola a spruzzo. Che periodicamente sono affiorate a Beirut. Come illuminazioni policrome. Inciampi visivi che hanno catturato subito l’attenzione degli abitanti. Benvenuti a Ouzeville, dunque. Negli ultimi mesi sono arrivati qui street artist provenienti dall’Europa, dalla Russia e dagli Stati Uniti (come Retna), che hanno lavorato insieme con il maggiore graffitista locale, Ashekman. Quasi contraddicendo la loro vocazione anti-sistema, questi artisti hanno accolto con entusiasmo l’invito di Nasser. Innanzitutto, hanno coinvolto i cittadini residenti in un processo poetico condiviso. Poi, hanno cominciato a combinare i loro stili.
Sono nati così esercizi grafici e pittorici che sembrano confondersi e sovrapporsi. Affreschi realizzati da diversi autori. Narrazioni unitarie, costellate di immagini di pace e di speranza. Drammaturgie che, nel nascondere, svelano. Per un verso, si posano su alcuni siti – parti di architetture anonime, muri crivellati di proiettili, edifici dismessi, facciate di grattacieli lussuosi – avvolgendoli dentro veli di pittura. Per un altro verso, evidenziano quegli stessi siti, evocando esperienze e dolori. Nasser non si è richiamato al modello Wynwood, il celebre art district di Miami, con gallerie d’arte, negozi, locali e wall drawing di Miss Van, Shepard Fairey, Ron English, Swoon, The London Police e Osgemeos. Si è ispirato, invece, a quel che era accaduto a Tirana. Che, nel 2000, grazie all’allora sindaco Edi Rama (attuale premier albanese), ha accolto un team di pittori provenienti da tutto il mondo, i quali hanno decorato le facciate di anonimi palazzi con cromie accese e sgargianti. Il loro intento: squarciare il grigio di intonaci risalenti al periodo comunista, per generare una sorta di onda caleidoscopica nella quale i cittadini non sono spettatori ma protagonisti attivi.
Il progetto di riqualificazione di Nasser guarda proprio alla tensione etica sottesa alla proposta di Rama a Tirana. Egli non vuole rendere Ouzai simile a un lussuoso distretto per ricchi collezionisti. Mira, invece, a suggerire una strada diversa per la vita nova del suo quartiere. L’arte è usata come strumento straordinario per alimentare, in chi vive lì, senso delle radici, coscienza civile, rinnovata dignità, consapevolezza di appartenere a una comunità. Decisiva soprattutto la funzione del colore. Che, nei dipinti dei writer, non è decalcomania da appiccicare sui palazzi, ma virus benefico capace di rendere evidente, sulle superfici delle case, grazie a centinaia di piccoli gesti, il possibile cambiamento del volto della città. Il significato di queste azioni è in una frase del poeta e filosofo libanese Khalil Gibran riportata da Retna in un murale: «La vera ricchezza di una nazione non è nell’oro né nell’argento, ma nel sapere, nella saggezza e nella rettitudine dei suoi figli».