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 2017  luglio 09 Domenica calendario

La psicoanalisi secondo Antonino Ferro

Quale senso ha nel terzo millennio sdraiarsi sul lettino, decidere di cominciare una terapia analitica? Tra le tante risposte a questa domanda ci piace citare un episodio contenuto nel libro di Antonino Ferro, Pensieri di uno psicoanalista irriverente, a cura di Luca Nicoli, uscito per Raffaello Cortina in Italia e in contemporanea da Karnac negli Stati Uniti e Gran Bretagna, dove in una settimana ha esaurito la prima tiratura.
Eccoci dunque all’episodio. Ricorda Ferro che durante i bombardamenti di Londra nella Seconda guerra mondiale, mentre i razzi tedeschi passavano sopra la sua casa, Melanie Klein continuava imperterrita a lavorare e interpretava i disegni del suo piccolo paziente sulle V2 come un attacco al seno materno. Un fanatismo professionale, un estraniamento dalla realtà? Le cose non stanno così secondo Antonino Ferro, presidente della Società psicoanalitica italiana (Spi) dal 2013 al 2017, membro permanente dell’Associazione di psicoanalisi americana e considerato il nostro maggiore analista a livello internazionale per le ricerche che rimandano a Wilfred Bion sul concetto di «campo» e sulle rêverie (il suo La stanza di analisi è stato tradotto in oltre venti lingue): «Quando l’analista è dentro la stanza di analisi – dice Ferro – deve rinunciare alla realtà esterna. Come ieri Klein addomesticava le V2 alle sue esigenze terapeutiche, così oggi non posso pensare all’Isis mentre sono in seduta, altrimenti diventerei un sociologo, rinuncerei alla mia funzione di terapeuta. La forza della psicoanalisi sta nel focalizzarsi su quanto avviene nella stanza di analisi, sul rapporto medico-paziente».
Questo libro, molto colto, non è scritto in un astratto linguaggio teorico, è una guida per gli analisti, ma forse soprattutto per i pazienti. La prima domanda nella scelta del terapeuta è la seguente: come faccio a non prendere una fregatura? «Bisogna informarsi, per esempio da un amico che ha già fatto analisi, o anche con l’aiuto dei siti internet delle maggiori associazioni, a cominciare dalla Spi, se l’analista prescelto ha avuto una formazione seria. Laureato in medicina o in psicologia? Non importa, l’importante è che abbia seguito un training, un’analisi approfondita. I colleghi statunitensi, sempre all’avanguardia, espongono negli studi i propri curricula».
L’altra domanda frequente è: a quale età si può andare in analisi? Quando è troppo presto e quando troppo tardi? «Certi dogmi sull’età giusta per andare in analisi sono un retaggio del passato. Oggi io ho in cura pazienti di pochi mesi, che magari hanno disturbi irrisolti dell’alimentazione o del sonno, e pazienti ottantenni. La psicoanalisi è il più efficace metodo di terapia della sofferenza psichica, a prescindere dall’età».
Ci si chiede anche se occorrano per forza 3-4 sedute o se ne bastino una o due alla settimana. «Nonostante io venga considerato un eversivo – risponde Ferro – sulle sedute mi attengo ai criteri classici. In linea generale credo si possa parlare propriamente di analisi soltanto a partire da tre sedute, necessarie per attivare quel processo di trasformazione che porta alla guarigione. Certo, ci sono anche buone psicoterapie analitiche di una o due volte alla settimana, ma non si tratta di Analisi con la A maiuscola».
Verrebbe da dire che con tre sedute o quattro alla settimana la psicoanalisi rimane una terapia per ricchi. «Dipende da dove ci ha portati la cicogna. Se siamo nati in Finlandia, il Servizio sanitario nazionale copre tutto per alcuni anni, in Svizzera e Germania viene rimborsato sino a un certo numero di sedute. In Italia è tutto privato, con l’eccezione di alcune assicurazioni, per esempio quelle degli industriali, dei parlamentari e parzialmente quella dei giornalisti».
Pensieri di uno psicoanalista irriverente contiene alcuni passi dissacranti che riguardano anche il padre fondatore e nume tutelare, Sigmund Freud. «Siamo tutti sulle spalle di Freud, ma è indispensabile storicizzarlo. Freud stesso era un innovatore che cambiava continuamente. Il fatto di farne un punto di riferimento rigido è fuori dal tempo».
Così come sono fuori dal tempo certi stereotipi dell’analista silente, che intimidisce il paziente e non gli augura nemmeno buona Pasqua. «L’analista muto, troppo compreso del suo ruolo, è uno stereotipo che appartiene al passato, è un residuato bellico. Se un paziente oggi mi chiede “dottore, lei ha la patente?”, non starei a dire “lei mi sta chiedendo se sono in grado di guidare la sua analisi”. Risponderei semplicemente che sì, la patente ce l’ho».
Se l’analista 2.0 è cambiato, nel senso di maggiore capacità di relazione emotiva con il paziente, in che modo è cambiato il paziente? «Una volta c’era l’isteria, oggi quasi scomparsa, poi c’è stato il periodo degli attacchi di panico, che corrispondono a emozioni che esplodono come bombe. Oggi sono più diffusi i pazienti di stampo depressivo. Naturalmente sto semplificando».
In quale senso si può parlare infine di crisi della psicoanalisi? In un brano del suo libro lei scrive: «Se il mondo si ostina a decretare la morte di Freud ogni cinque anni, probabilmente è perché non abbiamo celebrato noi il suo funerale. Perché non fare come con i propri cari defunti? Li si onora e li si ricorda, ma si prova a sopravvivere a loro, si va avanti». «Il cambiamento – risponde Ferro – è proprio di una scienza ben salda sulle proprie gambe». Una psicoanalisi salda anche di fronte alla crisi economica che dura da un decennio? «Certo, gli onorari non sono più quelli di una volta. Conosco alcuni colleghi giovani che prendono in casi di estrema necessità 20 euro a seduta. Ma la psicoanalisi resiste. A Pavia, dove vivo e lavoro, vent’anni fa eravamo due analisti, oggi siamo 25».