La Stampa, 9 luglio 2017
Nguyen: tra coraggio e paura così sono diventato scrittore. Il premio Pulitzer vietnamita-americano racconta le sofferenze iniziali, le perplessità dei genitori, l’ignoranza che può rivelarsi vantaggiosa
Quasi vent’anni fa esatti arrivai a Los Angeles nel mese di giugno. Avevo ricevuto il mio dottorato dalla UC Berkeley in maggio e avevo compiuto 26 anni in febbraio. Quell’estate, trovai un appartamentino nel quartiere Silver Lake di Los Angeles e cominciai a prepararmi per una nuova carriera di professore presso la University of Southern California. Ripenso a me stesso con perplessità e benevola comprensione, poiché c’erano diverse cose di cui ero ignaro all’età di 26 anni.
La mia ingenuità mi protesse quando mi sedetti al piccolo tavolo della cucina e in quella prima estate bollente e soffocante cominciai una raccolta di racconti. Se avessi saputo che mi ci sarebbero voluti 17 anni per terminare quella raccolta, e altri tre per pubblicarla, forse non avrei neppure cominciato. Forse mi sarei arreso alla paura.
Tuttavia, alle volte – non sempre, ma alle volte – l’ignoranza può rivelarsi vantaggiosa quanto la conoscenza. L’ignoranza è vantaggiosa se ne siamo consapevoli. Nel mio caso, per parafrasare un ex ministro della Difesa, sapevo quello che non sapevo, e sapevo di volerlo sapere, ma non sapevo come fare a saperlo. Sapevo di voler scrivere opere di narrativa, e sapevo di voler fare una ricerca innovativa, ma non sapevo come fare né l’una né l’altra cosa. Sapevo altresì che le università non premiavano l’ignoranza, o la confessione dell’ignoranza, e così mi tenni la mia ignoranza tutta per me fingendo di sapere quello che stavo facendo.
Quel fortunato inganno portò a un incarico di ruolo, sei anni dopo. Per assicurarmi il posto, feci quello che sapevo fare. Diventai un professionista accademico e scrissi un libro accademico, ovvero la cosa per cui ero stato assunto in qualità di ricercatore. Nella mia ingenuità mi ero detto che, una volta scritto il libro e conquistata la libertà e l’autonomia dell’incarico di ruolo, avrei scritto dei romanzi. Ci sarebbero voluti solamente due anni per finire quella raccolta di racconti, e poi sarebbe stata venduta e pubblicata e avrebbe vinto dei premi, e io sarei diventato famoso. Con un tale atteggiamento, riuscivo a malapena ad affermare che diventare uno scrittore era un atto di coraggio o di superamento della paura. Sapevo solo vagamente, senza capirlo davvero, quanta scrittura sarebbe stata richiesta da parte mia, quanto di me sarebbe andato distrutto come professionista, con mia grande sofferenza ma alla fine per il mio progresso e miglioramento come scrittore e accademico.
Per i successivi nove anni, capii cos’era la sofferenza mentre lavoravo a quella dannata raccolta di racconti. Non sapevo quello che stavo facendo, né, mentre sbiadivo lentamente davanti allo schermo del computer e a una parete bianca, che stavo diventando uno scrittore. Diventare uno scrittore c’entrava in parte con l’acquisizione di una tecnica, ma altrettanto con lo spirito e un’abitudine della mente. Era la disponibilità a stare seduti su quella sedia per migliaia di ore, ricevendo scarsi e occasionali apprezzamenti, sopportando la sofferenza di scrivere nella convinzione che in qualche modo, nonostante la mia ignoranza, stava accadendo qualcosa di sconvolgente. (…)
In questo momento il mio romanzo Il simpatizzante non è avvolto nell’oscurità né sconosciuto per via del premio Pulitzer. Tuttavia il libro poteva benissimo non averlo ricevuto, poteva benissimo sprofondare nell’oscurità e nell’oblio perché non era stato premiato, anche se nel romanzo non c’era nulla di diverso per il fatto di aver ricevuto un premio. La fortuna di un libro cambia solamente il modo in cui la gente vede quel romanzo, non il romanzo stesso. Penso a tutti gli altri libri che avrebbero potuto vincere il premio, o a tutti i romanzi che in altri anni non hanno vinto premi e che avrebbero potuto o dovuto vincerli. Come il tempo mostrerà, alcuni di questi romanzi misconosciuti raggiungeranno un indiscutibile successo nel corso della storia della letteratura. Il punto è che i premi, e tutto ciò che simboleggiano in termini di gusto, giudizio, vanità e pregiudizi, sono effimeri. Quello che oggi non conosciamo potrebbe essere quello che verrà apprezzato nel futuro.
La conoscenza di questo tipo di ignoranza conduce all’umiltà, e anche alla consapevolezza che ciò che può sembrare inutile, perché non è premiato e riconosciuto, un giorno potrebbe rivelarsi della massima utilità. Sebbene questo genere di lavoro apparentemente inutile appartenga alle scienze, il fardello dell’inutilità ricade con maggior pesantezza sulle discipline artistiche e umanistiche in un mondo che attribuisce sempre più valore all’utilità. Quando, 27 anni fa, all’università studiavo inglese e scienze etnologiche, corsi il rischio di studiare cose che molte persone potrebbero ritenere inutili. Forse anche i miei genitori, bottegai rifugiati che non andarono mai all’università e che lavorarono dalle 12 alle 15 ore al giorno quasi tutto l’anno, pensavano che i miei studi fossero inutili.
Se era questa la loro opinione, si erano guadagnati quel diritto di pensarla a quel modo. Ai miei occhi loro due rappresentavano una lezione di paura e coraggio, riuscendo a sopravvivere a trent’anni di guerra, diventando dei rifugiati, e lottando per costruire e ricostruire le loro ricchezze. Ma bisogna riconoscere che i miei genitori spazzarono via ogni scetticismo e incoraggiarono i miei studi probabilmente inutili. Erano ignari del mio futuro quanto me, ma avevano fiducia in me.
Questo è ciò che credo tanti di noi che lavorano nel campo delle discipline artistiche e umanistiche sperano di ricevere dalle università, dal governo, dagli studenti e dai genitori che alle volte sono scettici: la pazienza e la fiducia in noi mentre sondiamo i limiti della nostra ignoranza e del nostro coraggio, mentre vinciamo la paura di inseguire ciò che può benissimo rivelarsi inutile, mentre andiamo in cerca di quel mistero e di quell’intuizione che esiste dentro ognuno di noi.