la Repubblica, 8 luglio 2017
Triton, Minniti vuole cambiare l’intesa che inchioda l’Italia
ROMA Doveva essere una soluzione, è diventata il problema. L’operazione europea Triton avrebbe dovuto «cambiare moltissimo le cose per l’Italia», sosteneva tre anni fa Angelino Alfano. Oggi è l’Italia che chiede di cambiare Triton, per sbarazzarsi di quella clausola inserita nell’operation plan che impone lo sbarco dei migranti salvati nel Mediterraneo centrale nei porti del nostro Paese.
È una partita a poker con i partner europei, giocata dal governo italiano in una posizione di debolezza e con pochi assi in mano. Oltrettutto confusa dalla polemica politica scatenatasi sulla caccia al “colpevole”: chi ha firmato cosa, chi ha voluto Triton, chi non si è opposto ai Trattati di Dublino.
Vediamo come stanno le cose. Nel novembre 2014 (governo Renzi, Alfano al Viminale) l’Italia fu tra i primi Stati ad abbracciare la missione di sicurezza di Frontex, accettandone i criteri operativi: era un modo per sostituire Mare Nostrum che, tra Marina e Aeronautica, ci costava 9,5 milioni di euro al mese. «Triton costa un terzo e non è a carico soltanto dell’Italia, sarà un enorme risparmio per noi e cambieranno moltissimo le cose», annunciava Alfano con prematuro ottimismo. A nessuno sfuggiva il peso che avrebbe avuto la clausola sui porti italiani, ma i flussi migratori provenienti dalla Libia erano la metà e preoccupava di più la rotta balcanica. Oltretutto, avevamo un credito da spendere a Bruxelles sul tema della flessibilità.
«Per motivi che non so, forse per ragioni di negoziato perché tutto si negozia in Europa, ci siamo presi in carico sbarchi e coordinamento», osserva l’ex ministro degli Esteri Emma Bonino. Ora che la rotta balcanica è chiusa, e dal mare arriva il 97 per cento dei profughi, l’Italia si ritrova annodata a doppio filo a una clausola che non può più reggere.
«Non siamo noi che abbiamo deciso di spalancare le porte», sostiene Matteo Renzi. «Aver accettato i due regolamenti di Dublino, come hanno fatto gli esecutivi italiani del 2003 e del 2013, è stato un errore clamoroso». Fatto sta che l’operazione Triton, che il Viminale proverà a modificare martedì prossimo in Polonia al summit di Frontex, è stata adottata dal suo governo. È vero che i trattati di Dublino II e Dublino III li hanno sottoscritti altri governi (Berlusconi e Letta), ma questi nulla dicono sui porti e nulla impongono sugli sbarchi. Regolano soltanto le richieste di asilo, che devono essere presentate e vagliate nel paese di primo approdo del migrante.
Il ministro Marco Minniti in queste ore sta valutando le vie percorribili. Difficilmente i partner europei accetteranno di eliminare la clausola in favore della “regionalizzazione dei soccorsi”: al vertice informale di Tallinn solo evocare l’idea ha sollevato un coro di no. L’estrema ratio potrebbe essere l’uscita unilaterale dalla missione, che farebbe cadere l’obbligo per i porti italiani di autorizzare l’ingresso delle navi Triton. Minniti ha chiesto con urgenza al Dipartimento di Pubblica sicurezza due dossier: il primo sulla procedura tecnica da seguire con Frontex nel caso di ritiro dell’adesione, l’altro sulle conseguenze che avrebbe l’ipotesi – al momento assai remota – di chiusura degli approdi alle imbarcazioni straniere che recuperano migranti nel Mediterraneo.
«Anche uscendo da Triton l’Italia non può respingere le navi», ragiona però l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo, esperto di diritto del mare. «Tre convenzioni internazionali impongono che i naufraghi siano portati nel Paese che ha coordinato il soccorso. Nel mediterraneo Centrale questa funzione la svolge solo il Centro marittimo italiano, dentro e fuori la zona search and rescue di nostra competenza, perché la Libia, la Tunisa e Malta non lo fanno. Dunque i migranti continueranno ad arrivare sulle nostre coste, con o senza Triton».