il Giornale, 10 luglio 2017
Luciano Moggi, 80 anni ma lui resta in campo
Non è mai stato un «capostazione», come lo soprannominavano i suoi detrattori. Luciano Moggi, nato a Monticiano in provincia di Siena 80 anni orsono, entrò per concorso alle Ferrovie dello Stato ma al massimo si occupò della biglietteria e del traffico merci a Civitavecchia. E comunque non era quella la sua passione: il giovane Luciano giocava da stopper nelle serie minori e una volta appesi gli scarpini al chiodo iniziò a fare l’osservatore.
Lo nota Italo Allodi, quello che fu Moggi prima di Moggi. Nel senso che dagli anni ’60 agli ’80 era lui il manager più influente del calcio italiano. Lavorando per la Juve Moggi scopre talenti come Causio, Scirea, Paolo Rossi. Poi nel 1977 passa alla Roma come consulente e oltre a «pescare» Pruzzo dal Genoa inizia ad avere rapporti controversi con gli arbitri: il presidente dell’Ascoli Rozzi, furioso per la direzione di gara nella partita coi giallorossi, scopre che alla vigilia Lucianone era stato a cena con la terna. Allora Viola decide di liberarsene e lui (siamo nel 1980) viene assunto come ds dalla Lazio.
Due anni dopo approda al Torino, restandoci cinque anni con alterne fortune. Ma il grande salto lo fa nel 1987 passando al Napoli neo-campione d’Italia: vince un altro scudetto e una coppa Uefa tenendo a bada l’ultimo ingovernabile Maradona, fino al 1991. Poi torna al Toro di Borsano e quando la procura indaga sui conti del club granata salta fuori un conto segreto per pagare fuoribusta a giocatori, dirigenti e procuratori, ma anche gioielli, abiti firmati e «accompagnatrici» agli arbitri di Uefa. Borsano lo accusa, ma alla fine è assolto perché il factotum Pavarese si assume tutte le responsabilità.
Dopo una breve parentesi alla Roma di Sensi, nel 1994 inizia l’epopea juventina durata 12 anni. Con Giraudo e Bettega compone la celebre «triade» vince tutto e diventa il padrone del calciomercato anche grazie alla Gea, la società del figlio Alessandro che si occupava di procure calcistiche. Nel 2006 cade su Calciopoli: le intercettazioni lo inchiodano come ideatore di un sistema illecito con cui condizionava tutto il calcio italiano. Alla fine Moggi viene radiato dalla giustizia sportiva mentre in sede penale se la cava con la prescrizione. La sua carriera finisce qui.
Negli ultimi anni è tornato alla ribalta come opinionista, finché due mesi fa ha firmato un triennale come consulente del Partizani Tirana, club di serie A albanese. Il calcio resta il suo amore, e al cuore non si comanda.
Federico Malerba
Perché lo difendo: uno scienziato del calcio mercato. Fu vittima di un golpe sportivo
Lo chiamavamo The Intelligence, e avevamo ragione. Perché nel calcio degli anni ’90, lontano parente di quello odierno dove a contare sono i procuratori e le società non riescono più a esercitare il potere di un tempo, Luciano Moggi è stato il numero uno. Adorato da noi juventini, tornati a vincere dopo un lungo digiuno grazie all’intuizione del dottor Umberto Agnelli che azzerò la vecchia dirigenza superata per chiamare un uomo che ovunque era stato aveva dimostrato di sapersela cavare al meglio, insieme al manager Antonio Giraudo nonostante fosse tifoso del Toro e alla bandiera bianconera Roberto Bettega. In un decennio, quella Juve della Triade, con Lippi e poi Capello in panchina, vinse tutto, in Italia, in Europa, nel mondo. Con un preciso diktat della proprietà: occhio al bilancio, che soldi non ce ne sono più.
Troppi dimenticano che Luciano Moggi, da ds, vinse lo scudetto a Napoli. Va bene, certo, il Napoli di Maradona, ma siamo sicuri che per battere il Milan degli olandesi fossero sufficienti le prodezze di un campione bizzoso e già in fase calante? Persino con il Torino, Lucianone riuscì a prendersi un secondo posto in campionato (per i granata pressoché un miracolo) e una finale di Coppa Uefa. Eppure, per i non juventini, Moggi ha rappresentato a lungo l’arroganza del potere, non il direttore sportivo più acuto, intelligente, visionario, del nostro calcio.
Capace di comprare a poco e rivendere a tanto, lo hanno spesso tirato per la giacchetta dalla doppia sponda milanese. Ma a lui piaceva lavorare a Torino, dove poteva permettersi di vendere Vialli e Ravanelli dopo la conquista della Champions nel 1996, senza che nessuno battesse ciglio. Di cedere Zidane al Real, che in maglia bianconera è stato un campione a 3/4, e con quei soldi comprare Buffon, Thuram e Nedved per aprire un altro ciclo vincente. Di liberarsi dopo un solo anno del piantagrane Bobo Vieri. Di seguire mr. Lippi nell’idea che Del Piero fosse meglio di Robi Baggio. Di strappare all’Ajax, l’ultimo giorno di mercato, il giovane Ibrahimovic, che solo una proprietà scellerata svendette all’Inter nei tragici tempi di Farsopoli.
Già, l’estate del 2006. Chissenefrega del mondiale, con la Juve mandata in serie B (con penalizzazione) senza che dai vertici di corso Galileo nessuno muovesse un dito. Un golpe giudiziario-calcistico di cui Luciano Moggi è stato la vittima principale, senza aver commesso nulla di così eclatante rispetto ai dirigenti di altre squadre. Anche dei cartonati prescritti, come si è saputo in seguito. Altri se la sono cavata con blande squalifiche, lui, il migliore, ha subito l’onta dell’allontanamento dal calcio. Un prezzo da regime totalitario, da epurazione.
Chi ha giocato a pallone sa che niente potrà cancellare il sudore e la fatica sul campo. Luciano Moggi ha costruito squadre vincenti grazie alla sua competenza, all’esperienza e, soprattutto, non temendo mai il rischio. Prova ne sia che i suoi principali difensori sono quelli che hanno lavorato con lui, atleti e tecnici in primis.
Senza dimenticarne l’ironia sorniona che hanno contribuito a farne un gran personaggio.
Buon compleanno, Big Luciano, con riconoscenza...
Luca Beatrice
Perché lo accuso: un diavolo del pallone diventato re. Condannato dai giudici e dalla Juve
Dopo un decennio l’immagine del Diavolo (fatto persona) non lo lascia più. Nessuno meglio di Lucianone Moggi ha saputo interpretarne la parte condita da una trama che non chiarirà mai i punti oscuri. Intendiamoci, Moggi è stato un eccellente dirigente calcistico finchè non ha voluto abusare di potere e conoscenze. Nessuno come lui sapeva gestire lo spogliatoio, guidare gli allenatori (Lippi potrebbe far lezione), intuire il valore dei giocatori. Peccato si sia fatto prendere la mano. Calciopoli non va dimenticato. La Juve che ti scarica ha emesso la prima condanna, il resto (assoluzioni e prescrizioni comprese) lo hanno fatto tribunali sportivi e penali. Moggi vivrà in pace con se stesso questi 80 anni, ne ha diritto come chi arriva alla venerabile età. Ma di venerabile oramai resta solo l’età. Non si può tradire la passione della gente, eppoi dire che non è successo niente.
Moggi era il re del «ci penso io» quando qualcosa prendeva un verso storto e, spesso, trovava soluzione. Era il miglior ufficio stampa della Juventus quando doveva tenere a bada i giornalisti. Ma era «lo stalliere del re che doveva conoscere tutti i ladri di cavalli» concluse Gianni Agnelli. Luciano, a suo tempo, lo ha tradotto in un complimento. Spiegò: «Ci voleva uno che tenesse a bada tutti i figli di mignotta che giravano nel pianeta calcio». Perfetto! E allora i casi sono stati due: o Moggi è voluto diventare ad ogni costo il capo carismatico e notabile di quei figli di mignotta, oppure quei figli di mignotta hanno fregato lui.
Spetta al suo amor proprio dare la risposta. E qualunque essa sia, anzi è stata già data e replicata più volte, sor Luciano (ci fu chi lo appellò Lucky Luciano, non proprio un complimento) non potrà più scollarsi di dosso l’abito del Diavolo, interprete a modo suo di tutto quanto il cinema ci ha proposto in un bianco e nero filmico delle storie americane. Qui si parla di pallone ed affini, nei film si raccontava di padrini. Capita nello sport: pure la boxe è vissuta tra padrini e padroni. È probabile che nessuno abbia mai inteso Luciano Moggi come un verginello e l’interessato ci sarebbe rimasto male se qualcuno l’avesse pensato. Però nessuno, neppure l’interessato, potrà negare che Moggi era un capo clan calcistico. Poi c’è clan e clan. Ed ha abusato del carisma e della forza che si era costruito negli anni. Aveva lavorato bene. Ma in ogni senso. E se vero che avere potere non è reato, come dice la sua tesi difensiva, è vero che il potere chiama potere e talvolta non se ne intravvede il confine tra uso e abuso.
Oggi possiamo dire che Lucianone è stato travolto da Calciopoli: anzi rovinato. Altrimenti chissà quanto avrebbe imperato senza trovare avversari validi. Non a caso se lo portò a casa la Juve, dopo un lungo addestramento (al potere? Più probabilmente al sottopotere) fra Torino, Lazio e Napoli, ma l’aveva cercato Moratti e, a dire di Luciano, lo voleva pure Berlusconi. Era indubitabilmente bravo, perché negarlo? Poi bisogna vedere come gestiva la sua eccellenza. L’allontanamento dalla Signora è stato il suo crollo, ma non come quello delle torri Gemelle. Moggi si è solo accartocciato su se stesso. E, a 80 anni, siamo ancora qui a parlare di Lui e di calciopoli. Mentre sottobosco e sottopotere calcistico potrebbero raccontarci, ancora oggi, molto di più.
Riccardo Signori