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 2017  luglio 08 Sabato calendario

I Placebo si raccontano: «Tra tanti morti viventi con cellulare noi siamo i sopravvissuti del rock»

Attenzione a Collisioni 2017, dove domenica 16 arrivano i Placebo, la band britannica che ha segnato gli ultimi due decenni del rock più glam e pop. Ne parliamo con Stefan Olsdal, il bassista svedese che con il cantante Brian Molko nel 1994 fondò il gruppo.
Avreste mai immaginato che i Placebo sarebbero arrivati a festeggiare vent’anni di carriera, come fate con questo tour?
«E chi se lo aspettava. Eravamo convinti che saremmo finiti molto prima dei 20 anni. Non solo come band, proprio come esseri umani. C’erano mattine, quando il successo ci è scoppiato in mano, che mi svegliavo stupito di essere ancora vivo».
Il vostro spettacolo è un «greatest hits». Avete anche pubblicato «A Place for Us to Dream», che racchiude i pezzi più forti.
«Sì, ma c’è anche l’ep Life’s What You Make it con cinque inediti. Lì ci siamo proprio divertiti».
Divertiti a rifare il pezzo dei Talk Talk che dà il titolo al disco?
«Esatto, quegli anni, la fine degli Anni Ottanta, sono stati fondamentali per noi due. Quella musica è eccezionale e viva ancora adesso. Il video che abbiamo fatto è stato un’idea di Brian, anche se purtroppo non abbiamo potuto filmarlo di persona, ci è andata una troupe».
E perché?
«È girato in Ghana, in un luogo in cui finisce buona parte dei computer rotti di tutto il mondo. Una sorta di discarica riservata ai pc. Ci sono bambini che non sanno ancora nemmeno camminare e già lavorano allo smontaggio di schermi, tastiere e hard disk. Per loro la vita non è certo “quella che si stanno costruendo”, come vuole il testo della canzone. Anzi. Con una specie di contrappasso stanno smontando e riutilizzando quella che è stata la vita di molti di noi. Una metafora fortissima».
Quando si sente parlare dei Placebo agli italiani con più di trent’anni viene in mente la vostra partecipazione al Festival di Sanremo del 2001. Brian alla fine della canzone spaccò la chitarra sul palco. Uno shock per il pubblico italiano.
«Come dimenticarlo? La Polizia ci inseguì fino in albergo e fummo costretti a barricarci in camera. Una situazione surreale; ricordo ancora la faccia di – come si chiamava? – ah sì, Raffaella Carrà. C’è ancora? Aveva un’espressione atterrita. Noi avevamo suonato in Canada la sera prima, eravamo vittime del jet-lag, incazzati neri, anche un po’ fatti, lo ammetto... E le cose sono andate come sono andate».
Sì la signora Carrà è ancora viva e oggi – giusto per mettervi a posto la coscienza – la rottura della chitarra sul palco probabilmente sarebbe vista solo come un momento di spettacolo.
«Fantastico! Allora sarebbe una buona occasione per tornare. Magari, visto che i festeggiamenti per i vent’anni di carriera andranno avanti ancora per un po’, potremmo tornare al Festival del prossimo febbraio. Che ne dice?».
Vi accoglierebbero a braccia aperte. I Placebo rinati, maturati, una bella riscoperta.
«È vero, siamo finalmente maturati. Lo noto quando vedo ragazzini, ma anche tanti adulti, che passano le giornate guardando gli schermi dei loro telefonini. In America li chiamano Mombies, i mobile-zombies, i morti viventi dello smartphone. Non li capisco. Oggi dopo i concerti noi preferiamo andare a correre in campagna o a goderci la natura».