La Stampa, 7 luglio 2017
Pechino-Parigi mission (im)possible. Il principe Borghese e Luigi Barzini protagonisti del trionfo italiano nel raid che contribuì a lanciare l’automobile
Alla fine del maggio 1907 il Wai-Wu-Pu, il Gran Consiglio dell’Impero Celeste, si riunì a Pechino presieduto da Na-Tung, la leggenda vivente che aveva guidato la rivolta dei Boxer contro le legazioni straniere. All’ordine del giorno c’era un serio problema: in città erano arrivati alcuni chi-cho, i «carri a combustibile» di cui fino ad allora si era solo sentito parlare. Che cosa volevano quegli stranieri che li guidavano? Non certo, come dicevano, arrivare fino a Parigi senza nemmeno guadagnarci un soldo: era improbabile che persino loro fossero così stupidi. In attesa di scoprire che cosa c’era sotto, Na-Tung ordinò che i chi-cho potessero circolare per Pechino, ma solo trainati da buoi.
Luigi Barzini, il più bravo «redattore viaggiante» del Corriere della Sera, era stato convocato due mesi prima, il 18 marzo, dal direttore del giornale, Luigi Albertini: «Le andrebbe di fare il giro del mondo? Andrà a Parigi, poi a New York, a San Francisco e a Pechino. Legga qui». Albertini gli aveva mostrato un ritaglio, datato 31 gennaio, del giornale francese Le Matin: «C’è qualcuno che accetti di andare, nell’estate prossima, da Pechino a Parigi in automobile?». In cinque avevano versato la caparra richiesta come prova di serietà: l’impresa sarebbe stata tentata da due De Dion-Bouton e un triciclo Contal francesi, da una Spyker olandese e da una Itala italiana, condotta dal principe Scipione Borghese e dal suo meccanico, Ettore Guizzardi. Sull’auto c’erano tre sedili e Barzini poteva dunque occuparne uno. Avrebbe inviato dispacci al Corriere e al Telegraph di Londra: comunque fosse andata a finire, sarebbe stata un’avventura fantastica da raccontare.
La Itala fabbricata a Torino
Quando Barzini arrivò a Pechino, Borghese non c’era. Era andato a cavallo con la moglie Anna Maria fino a Kalgan (oggi Zhangjiakou), un viaggio di 500 chilometri, portando con sé un’asta di bambù lunga come la carreggiata della macchina. Voleva verificare che l’Itala potesse transitare tra gli stretti passi montani percorsi solo da carovane di cammelli, e scoprì che non poteva. Al suo ritorno, il principe e il giornalista si salutarono come se si conoscessero da sempre. Barzini aveva capito subito di che tempra era fatto Borghese: «Uno di quegli uomini che vogliono, che sanno, che agiscono».
Letto l’annuncio del Matin, il principe aveva risposto con un telegramma asciutto come una ricevuta, e aveva cominciato a organizzarsi. Per la macchina c’erano due scelte: leggera e con poca potenza, o pesante e potente. Aveva optato per la seconda. La Itala fabbricava a Torino la 35/45 HP, un’auto robusta con un motore di 7 litri che avrebbe richiesto poche modifiche: ruote più grandi e uguali davanti e dietro per limitare le scorte, cerchioni di legno più facili da riparare e lunghe assi di frassino al posto dei parafanghi, da usare come supporto per piccoli guadi o per trarsi d’impaccio nel fango. Ovviamente ci volevano anche grandi serbatoi per l’olio, per la benzina (l’Itala percorreva tre chilometri con un litro) e per l’acqua da bere. Non c’era alcun riparo per i passeggeri, ma se la sarebbero cavata.
Una simile meraviglia aveva bisogno di un buon meccanico, e Don Scipione ce l’aveva. Gliel’aveva portato il destino nel 1887, quando una locomotiva era deragliata vicino alla villa di Albano Laziale. Il principe era accorso con i suoi servi, aveva trovato il macchinista morto e un ragazzino, il fuochista, ferito: era Ettore, e il macchinista era suo padre. Borghese aveva tenuto con sé quel ragazzo, mandandolo a impratichirsi prima alla Fiat, poi all’Ansaldo. Barzini raccontò che, quando non aveva niente da fare, Ettore stava sdraiato sotto l’Itala, studiandone per ore ogni vite e ogni bullone. Se lo si chiamava, rispondeva «Comandi!», come un militare.
L’Itala partì da Pechino il 10 giugno e arrivò a Parigi il 10 agosto, con 20 giorni di vantaggio sulla Spyker olandese e sulle De Dion-Bouton, mentre del ridicolo triciclo Contal si perse ogni traccia nel deserto di Gobi. Borghese scrisse che se il raid voleva rispondere alla domanda se fosse possibile andare da Pechino a Parigi in auto, ebbene, la risposta era no.
Organizzazione perfetta
L’Itala aveva percorso la prima parte del viaggio sui pendii cinesi trainata da coolies, da marinai italiani della Legazione e da un asino, da un bue e da un cavallo, con la carrozzeria smontata e portata a spalle per rendere più leggero e meno voluminoso quel chi-cho che pesava come una montagna. Anche in Mongolia e in Siberia uomini e animali avevano soccorso l’Itala, salvandola dal fango e dai ponti crollati sotto le sue due tonnellate di peso lordo. Ma sulle pianure poteva finalmente correre, sventolando a poppa la bandiera italiana da pavese che i marinai le avevano regalato. I cavalieri mongoli venivano da molto lontano per vederla e guardavano sempre sotto la carrozzeria per scoprire dov’era nascosto il cavallo.
Senza la meticolosa organizzazione di Borghese, che aveva fatto collocare rifornimenti lungo il percorso circa ogni 500 chilometri, e senza quell’auto praticamente indistruttibile, amorevolmente curata da Ettore, non sarebbe stato possibile arrivare alla fine di quei massacranti e indimenticabili 16.000 chilometri, in gran parte percorsi senza il conforto di una strada. Quando arrivarono a Mosca, accolti da una folla festante, Borghese guardò quelle mani che si agitavano verso di loro e pensò: «Ma che abbiamo fatto, in fondo?».
È grazie a quel viaggio, a quel trionfo italiano, così scolpito da più di un secolo nella memoria del paese, che all’inizio del ’900 si cominciò a pensare all’auto come a un mezzo di trasporto affidabile e competitivo. Ancora oggi è piacevole leggere il libro di Barzini La metà del mondo vista da un’automobile, che fu subito tradotto in undici lingue. Bisogna avere in mente le sue pagine quando si va a vedere l’Itala, perfettamente restaurata e conservata al Museo dell’Automobile di Torino. Bisogna immaginarla ricoperta di polvere, accasciata nel fango, indomita al caldo e al gelo, smontata e rimontata per passare dove non poteva. E che ci si creda o no, se oggi la si rimettesse in moto, partirebbe ancora al primo colpo.