La Stampa, 7 luglio 2017
La Casa Bianca ribadisce la volontà di aiutare la famiglia Gard: «In Usa c’è una terapia e uno scienziato che la può applicare»
«Dopo ricerche e colloqui con dottori da tutto il mondo, abbiamo trovato un po’ di speranza in una terapia e in un medico che ha offerto ospitalità nella propria struttura negli Stati Uniti». Con queste parole consegnate alla pagina di raccolta fondi per curare il proprio bimbo, i genitori di Charlie Gard annunciavano la loro volontà di trasferire in America il piccolo, affetto da una rara sindrome patologica genetica. La cura sperimentale non è ancora stata utilizzata su pazienti affetti dalla sua malattia, ma in passato ha avuto successo nello sconfiggere un altro tipo di svuotamento mitocondriale chiamato TK2, molto simile a quello di Charlie. Nulla di sicuro quindi, ma neppure nulla da perdere per il piccolo Gard che, come sottolineato dai genitori, «ha ogni diritto a potere sfruttare questa opportunità».
Sull’identità del dottore e sul nome dell’ospedale in questione vige il massimo riserbo per motivi di privacy, ma anche per impedire che si accenda un altro dibattito su una questione già così delicata e di difficile catalogazione da un punto di vita legale. Anche la Casa Bianca, annunciando la disponibilità di Donald Trump ad aiutare la famiglia Gard, ha sottolineato come «non sia possibile menzionare nome del dottore e della struttura preposta alla cura per motivi di carattere legale». Certo è che la ricerca scientifica in Usa, sulla sperimentazione di cure applicate alle patologie più disparate, è molto importante e ha compiuto negli ultimi anni decisivi passi in avanti. Basti pensare che l’80% dei bambini affetti da diverse forme di tumore oggi possono essere curati. Tra le strutture ospedaliere di eccellenza che negli Usa conducono ricerche rivolte alla sperimentazione di cure ci sono il Mount Sinai, uno dei poli di eccellenza della East Coast, ma anche il Methodist Hospital di Houston, con un centro di ricerca all’avanguardia mondiale, e la Rockefeller Foundation, con tutte le sue iniziative avviate negli Stati Uniti come nel resto del globo. In generale, però, la ricerca medica americana si trova ora a fare i conti con un taglio del 40% dei fondi chiesto dallo stesso Trump attraverso il National Institutes of Health, già alle prese con l’inesorabile assottigliamento del suo budget registrato negli ultimi anni. Questo l’aspetto tecnico. C’è poi un aspetto legale che emerge dalla lettura (decisamente meno ampia in Usa rispetto all’Europa) del caso del piccolo Charlie. Come spiega Robert Klitzman, professore di psichiatria nel corso di bioetica della Columbia University, in Usa si lascia generalmente ai pazienti e alle loro famiglie, piuttosto che ai tribunali, la decisione di interruzione dei trattamenti per tenere in vita la persona. Secondo il codice di medicina etica, quando il paziente non è in grado di poter decidere (ed è questo il caso Charlie) si può procedere secondo due criteri: «Advance Directive», ovvero un documento con cui il paziente indica ex ante il da farsi qualora non possa partecipare alla scelta nel momento decisivo; «Surrogate decision maker», ovvero in mancanza di un documento la legge stabilisce una gerarchia tra familiari ed affini che hanno facoltà di parola. In questo caso vengono distinte sei categorie, la prima delle quali comprende i tutori legali, ovvero i genitori.