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 2017  luglio 06 Giovedì calendario

Derivati, così lo Stato italiano si inchinò a Morgan Stanley

Il caso avrà rilevanza modniale. Per la prima volta i magistrati contabili si muovono contro una banca d’affari internazionale. Accade in Italia su un disastro della finanza pubblica. La Corte dei conti ha citato in giudizio Morgan Stanley e i vertici del Tesoro contestando un danno erariale da 3,9 miliardi per la ristrutturazione dei derivati sul debito pubblico a fine 2011. Il processo parte in primavera, il giudizio è previsto nell’estate 2018. Si chiude così l’indagine condotta dal pm Massimiliano Minerva, durata due anni.
Tutto nasce a fine 2011, in piena tempesta finanziaria, quando Morgan Stanley riesce a farsi dare dal governo Monti 3,1 miliardi minacciando la chiusura immediata dei derivati in essere. Potè farlo grazie una clausola capestro concessagli in un accordo quadro firmato a gennaio 1994 – quando direttore generale al Tesoro era Mario Draghi – che fino ad allora aveva regolato i contratti, usati per aiutare l’Italia a entrare nell’euro e – con gli Swap – per allungare la scadenza del debito e proteggersi dal rialzo dei tassi di interesse sui titoli di Stato, rialzi come quelli del 2011. Per la clausola se il Tesoro si fosse trovato esposto oltre un certo valore, Morgan Stanley “poteva chiudere tutto il portafoglio”. Così è stato. Alla banca Usa vengono chiesti 2,7 miliardi di danni, 1,2 ai dirigenti del Tesoro: alla responsabile del debito pubblico Maria Cannata (1 miliardo), al direttore generale Vincenzo La Via (112 milioni) e agli ex ministri Domenico Siniscalco (89) e Vittorio Grilli (23).
I derivati italiani sono quelli che vanno peggio in Europa. Hanno un valore di mercato negativo per 37,8 miliardi e nel 2013-2016 l’impatto negativo sul bilancio pubblico è stato di 24 miliardi. Secondo i pm, contabili la gestione dei rischi di quelli siglati con Morgan Stanley è stata disastrosa. La soglia della clausola era talmente bassa (in media 50 milioni di dollari) che venne superata già nel ‘96. Nonostante questo, i dirigenti hanno continuato a siglare contratti. Hanno perfino venduto a Morgan Stanley delle swaption, la possibilità di entrare in un derivato che ovviamente la banca ha esercitato quando le conveniva, causando perdite ingenti. Sono contratti “speculativi” che violano le norme di contabilità nazionale. La Cannata, che nel 2018 andrà in pensione, li ha siglati, salvo poi spiegare che al Tesoro si venne a conoscenza della clausola solo nel 2007, 13 anni dopo l’accordo quadro. Secondo la Corte dei conti il ministero non aveva il personale adeguato per gestire queste operazioni e quando la banca minacciò di usare la clausola non si oppose, non si dotò di un team legale né chiese un parere giuridico sulla possibilità di evitare l’esborso. Eppure – risulta al Fatto – esisteva una clausola che in caso di controversia affidava la giurisdizione a un giudice italiano.
Per i pm contabili Morgan Stanley si è mossa come un ente pubblico visto il doppio ruolo di controparte nei contratti e di “Specialist” – cioè di banca che assiste il Tesoro nelle aste dei titoli di Stato, come fa tutt’ora – con un ruolo “predominante”, a fronte della tendenza del ministero a “subire le scelte”. Per questo avrebbe violato “la buona fede nell’esecuzione contrattuale”.
Sarà per questi rapporti di sudditanza che molti grand commis del Tesoro finiscono nelle banche che hanno venduto derivati allo Stato: Draghi è andato in Goldman Sachs prima di approdare alla Banca d’Italia; Grilli è tuttora in Jp Morgan, da dove ha convinto Matteo Renzi di poter salvare Mps con ritardi che hanno fatto salire il costo del soccorso pubblico. Ma il capolavoro lo ha compiuto Domenico Siniscalco. Diviene direttore generale del Tesoro a novembre 2001, chiamato dall’amico Giulio Tremonti. Sono gli anni della finanza creativa e Siniscalco avrebbe avuto un ruolo attivo nella stipula della famosa swaption del 2004, operazione che a fronte di un premio di 47 milioni ha causato una perdita di 1,2 miliardi. Il 16 luglio 2004 diventa ministro per 14 mesi. Quando Tremonti si riprende la poltrona, viene accolto proprio in Morgan Stanley, dove approda prima che sia passato l’anno di “quarantena” previsto per gli ex ministri. Ma la legge sul conflitto d’interessi, la Frattini, si è scordata le sanzioni. E così l’Antitrust – a quarantena scaduta – delibera che Siniscalco ha violato la legge, ma tutto è perdonato. Lui si difende spiegando che si era fatto inserire una clausola nel contratto che gli impediva di lavorare con clienti italiani per un anno, e tanto doveva bastare per un uomo che frequenta il ministero da quando ha 25 anni.
La pratica viene avocata dal presidente dall’Antitrust, Antonio Catricalà. Conclude che non è normale che un ex ministro da pochi mesi se ne vada in una controparte dello Stato nelle aste dei titoli del debito pubblico. Nel novembre 2011, Catricalà lascia l’Authority, chiamato da Mario Monti come sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Da lì presiede al disastro con Morgan Stanley. Oggi – filtra dal Tesoro – è tra i legali che assistono Morgan Stanley dalle accuse della Corte dei Conti. Un salto carpiato perfetto.