Libero, 6 luglio 2017
La solitudine del punto esclamativo
«Punto! Due punti! Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum». C’è quasi da rimpiangere la lettera sgrammaticata di Totò e Peppino nell’assistere oggi all’uso inappropriato dei segni di interpunzione. Inseriti a casaccio nei testi, ignorati o, al contrario, ripetuti in modo ridondante. Una confusione dello scrivere che riflette quella del parlare e, quindi, del pensare. Perché i segni di punteggiatura avrebbero questa funzione: dare ordine, senso e tono alle idee, alle parole, alle frasi.
A certificarne il cattivo stato di salute ci pensa il libro del linguista Massimo Arcangeli La solitudine del punto esclamativo (Il Saggiatore, pp. 334, euro 19), un viaggio genealogico all’ origine dei segni di interpunzione, ma anche una riflessione sulla loro crisi presente e sulle possibilità di un loro impiego futuro. «Tutti i segni di punteggiatura», dice Arcangeli, «sono stati cannibalizzati dal punto esclamativo. Lo si usa dappertutto e male, per esprimere qualsiasi sentimento forte: stupore, contentezza, rabbia. La sua invadenza è sintomo di una comunicazione in cui l’emotività prevale sulla razionalità. Ma si tratta di un segno maleducato, veicolo di presunzione». Non a caso, lo scorso anno il ministero dell’Istruzione inglese ha emanato una circolare per proibirne l’utilizzo nelle scuole elementari, dove molti bambini ne sono risultati addicted, cioè “dipendenti”. Nondimeno, il ricorso esagerato al punto esclamativo, secondo Arcangeli, ha un aspetto positivo: «Nella moria generale della punteggiatura, il punto esclamativo è l’unico a resistere, a difendere la fortezza dell’interpunzione. Soffre di solitudine anche perché è l’ultimo baluardo rimasto».
In realtà, al suo fianco, tengono botta anche i punti di sospensione, sebbene il loro uso compulsivo sembri la manifestazione di una malattia esantematica. «L’abbondanza dei puntini di sospensione», nota Arcangeli, «indica l’incapacità di ragionamento, l’inattitudine a concludere un pensiero. E poi attesta l’ignoranza delle regole grammaticali: dai testi scritti ai social si usano quattro, cinque, sei puntini di sospensione, quando invece dovrebbero essere soltanto tre».
Per segni di interpunzione che sopravvivono, ce ne sono altri che versano in pessime condizioni. Alcuni sono già sul letto di morte, come il punto e virgola, il più negletto tra i segni della nostra grammatica. Già nel 1934 il poeta Angelo Barile invitava a dargli l’estrema unzione e più di recente Pietro Citati ha parlato di un suo “assassinio": hanno ucciso il punto e virgola, chi sia stato non si sa... «La sua scomparsa”, sottolinea Arcangeli, “va legata al venir meno del senso della misura anche nel linguaggio. Il punto e virgola è una pausa intermedia che non può essere sostituita né da una virgola né da un punto fermo. Ma in una comunicazione semplificata e smodata diventa come un intralcio».
Non è ancora dipartita la virgola, sebbene sia uno dei segni che usiamo peggio: «Ci siamo convinti che la virgola corrisponda alle pause del parlato ma non è così: essa va adoperata con cautela, ad esempio per separare una frase incidentale dal contesto. E poi è insopportabile il suo rapporto sciatto con gli spazi: nelle tesi di laurea la virgola appare spesso attaccata alla parola successiva anziché a quella precedente (es.: “ciao,sono Mario” in luogo di “ciao, sono Mario”, ndr), o attaccata a entrambe ("ciao,sono Mario”, ndr). Una tendenza che ci riporta alla scrittura continua di età medievale, in cui lo spazio non aveva un valore in sé di tipo ortografico e logico».
E cosa dire del punto fermo? «Resiste con significati aggiuntivi che non hanno niente a che fare con la sua funzione originaria. Viene utilizzato perlopiù per troncare una conversazione in modo brusco. Ormai il punto è sinonimo di disappunto». I segni vecchi, rottamati o massacrati devono assistere anche all’ irruzione delle nuove leve della punteggiatura che, con l’avvento di Internet e dei social media, stanno prendendo il sopravvento. «La chiocciola», rileva Arcangeli, «non è più patrimonio esclusivo degli indirizzi email, ma va spesso a sostituire la lettera “a” in chiave anticensura (es.: “c@zzo”, “v@ff@nculo"), oppure assume un ruolo neutralizzante per superare le differenze di genere, grazie al fatto di contenere nel suo simbolo sia il femminile “a” che il maschile “o” (es.: Carissim@ amic@, ti scrivo perché il/la tu@ compagn@ ti tradisce. Cordiali saluti, ndr)». La chiocciola gender. L’hashtag (#) invece, che nasce come segno musicale (il diesis) e unità di misura per contare (in passato indicava la libbra), ha acquisito ormai una funzione demarcativa paragonabile a quella del punto fermo: «L’hashtag», avverte Arcangeli, «circoscrive un ambito, rappresenta un ostacolo, un muro. E chissà che domani non venga utilizzato anche per chiudere una frase».
E poi ci sono gli emoticon e gli emoji, ossia le faccine e i pittogrammi, specchio di una scrittura sempre più iconica, in cui l’immagine si affianca al testo, se addirittura non lo sostituisce. «Si torna così ai codici miniati medievali», conclude Arcangeli, «ma anche alle scritture pre-alfabetiche, di età sinaitica e sumerica, ricche di ideogrammi. È una sorta di cerchio che si chiude, a conferma che la storia, pure quella del linguaggio, è spiraliforme». Fortun@ che noi siamo ancora esenti da queste #contaminazioni!!! :