Libero, 6 luglio 2017
Poveri avvocati. Può salvarli solo il numero chiuso
Si dice che l’Italia sia la culla del diritto. In effetti sappiamo che gli antichi romani si sono inventati leggi il cui spirito sopravvive. Ma occorre segnalare che il nostro è anche il Paese degli azzeccagarbugli, la cui proliferazione è agevolata dal fatto che siamo litigiosi e abbiamo una impalcatura burocratica e giudiziaria talmente complessa da richiedere al cittadino, perennemente in lite, l’assistenza di un legale per non soccombere. Cosicché solamente a Roma ci sono più patrocinanti che in Francia. I nostri giovani, specialmente al Sud, terminato il liceo, prediligono iscriversi a giurisprudenza; risultato, nel nostro Paese rimbecillito ci sono più avvocati che imputati. E la professione forense è diventata una sorta di refugium peccatorum, esercitando la quale è quasi impossibile avere un minimo di successo e anche di garantirsi un reddito bastevole per tirare a campare.
Ovviamente, esistono eccezioni, come sempre, ma la maggior parte di coloro che hanno superato l’esame di Stato o sono baciati dalla fortuna, e si aggregano allo studio di papà, oppure rischiano di fare la fame. Molti sono costretti a cambiare mestiere, se riescono a trovarne uno, o condannati a grattarsi il ventre, non avendo nemmeno i 3500 euro per pagare i contributi fissi richiesti dalla Cassa nazionale forense e tentare disperatamente di esercitare la professione, peraltro resa impraticabile da altri oneri: quelli pretesi dall’Ordine ente medievale e pressoché inutile e quelli relativi all’obbligo di avere a disposizione locali dove fissare lo studio e la linea telefonica. Senza contare che l’elevato numero di specialisti del settore impedisce ai novizi di crearsi una clientela grazie alla quale emettere parcelle per nutrirsi dignitosamente. Insomma trattasi ormai di una attività ardua da svolgersi se non si è sorretti da aiuti che possono provenire soltanto da una famiglia abbiente o almeno ricca di conoscenze tali da fornire spinte decisive.
È pur vero che i laureati in legge non è detto che debbano per forza indossare la toga. Alcuni di essi, in particolare al Nord, dove esistono molte aziende ancora attive, vengono assunti negli uffici legali o come apprendisti dirigenti. In certi casi poi le banche non disdegnano di avere in organico giovani che abbiano dimestichezza con le pandette e i codici civile e penale. Ma siamo di fronte a una minoranza esigua di laureati con scarse prospettive di una carriera brillante. Nel Mezzogiorno le opportunità di un impiego per i dottori in giurisprudenza sono limitate al settore pubblico, cui si accede con concorsi non facili da superare. Un ragazzo o una ragazza in grado di entrare in magistratura costituisce una eccezione. I posti nella Casta sono numericamente esigui, gli esami da superare sono ostici e conquistare uno stipendio sicuro un’impresa ardua. Di conseguenza i legulei sono sempre più frustrati per non dire esausti. Quando arrivano a compiere trenta anni senza avere davanti un futuro roseo si arrabattano in qualche modo per raccattare due euro. La loro esistenza è triste. Se non avessero genitori generosi e comprensivi avrebbero scarse possibilità di mettere insieme il pranzo con la cena. Su questo non ci sono dubbi. I famosi bamboccioni non sono un’invenzione, costituiscono un’amara realtà.
Studiare, completare i corsi universitari è importante, tuttavia non è lecito dimenticare che i diplomi sono funzionali al tipo di carriera che si intende fare. Se quella dell’avvocato o del giudice è inaccessibile, va da sé che è sciocco cercare di volerla percorrere a ogni costo. Pertanto invitiamo i ragazzi a non montarsi la testa e a prendere atto che non entreranno mai in un tribunale in veste di attori del processo. Rinuncino alle loro ambizioni e mutino percorso accademico. Scelgano altre più proficue facoltà in maniera da non scontrarsi con la disoccupazione. Chi si iscrive a medicina, per esempio, deve combattere contro il numero chiuso, e con i famosi o famigerati test, cioè ostacoli da non sottovalutare: solamente una minoranza di aspiranti riesce a saltarli. Perché non si istituisce anche per giurisprudenza lo stesso sistema selettivo? Chi passa passa e i bocciati se ne facciano una ragione. Non c’è alternativa. I meritevoli vanno avanti e gli esclusi si danno una regolata e variano indirizzo. La natura non è democratica e non tutti gli uomini e le donne sono uguali. Chi vale va avanti e gli altri si arrangiano.
Per salvare la professione forense non bisogna allargare le maglie e consentire a cani e porci di esercitarla, occorre semmai renderla elitaria mediante esami severi. Diversamente saremo un Paese di pagliette prive di spessore e di capacità economica. È vero che i soldi non sono tutto, ma senza soldi non si compra niente, nemmeno l’indispensabile per essere persone libere.