National Geografic, 1 luglio 2017
Meraviglie sotto i ghiacci
Al mattino, quando arriviamo a piedi da Dumont D’Urville, la base di ricerca francese di Terra Adelia nell’Antartide orientale, siamo costretti a rompere il sottile strato di ghiaccio che si è formato sul foro scavato soltanto il giorno prima.
La cavità, che attraversa per intero i tre metri di spessore della banchisa, è appena sufficiente a far passare un uomo, e conduce direttamente al mare. Non ci siamo mai immersi attraverso un’apertura così stretta. Io sono il primo a scendere.
Spingendomi con mani, ginocchia, talloni e la punta delle pinne riesco a sgusciare attraverso l’apertura. Sprofondato nell’acqua gelida, alzo lo sguardo e vengo assalito dall’ansia: il foro sta già cominciando a richiudersi.
Sotto il banco di ghiaccio c’è un denso strato di cristalli in sospensione; la mia discesa ne ha rotto l’equilibrio, spingendoli verso il foro. Nel tempo necessario per tornare indietro e spingere il braccio nell’apertura, la gelida poltiglia ha già raggiunto lo spessore di un metro. Afferro il cavo di sicurezza e mi isso verso l’alto, centimetro dopo centimetro, ma mi ritrovo con le spalle bloccate. Poi sento un violento colpo alla testa: è la pala di Cédric Gentil, uno dei miei compagni d’immersione, che sta cercando di tirarmi fuori. Finalmente una mano afferra la mia e mi ritrovo all’aria aperta. L’immersione di oggi è finita, ma è solo una delle 32 che effettuerò nel corso di questa missione.
Sono venuto in Antartide con un altro fotografo, Vincent Munier, su invito del regista Lue Jacquet, che sta girando il seguito di La marcia dei pinguini, film campione di incassi del 2005. Mentre Jacquet riprende i pinguini imperatore e Munier li fotografa, la mia squadra ha il compito di documentare la vita sotto i ghiacci. D’inverno la banchisa si estende per un centinaio di chilometri sul mare, ma siamo in ottobre, all’inizio della primavera. Per 36 giorni, mentre il ghiaccio si frammenta e si ritira arrivando fino a pochi chilometri dalla costa, ci immergeremo fino a 70 metri di profondità.
Lavoro come fotografo subacqueo da oltre 30 anni, ma questa spedizione in Antartide è diversa da tutte le altre. Ci immergeremo sotto i ghiacci a profondità senza precedenti per chiunque, e in condizioni a dir poco complesse.
La casa, in Francia, ci siamo preparati a questa spedizione per due anni. Avevo una mappa di Terra Adelia appesa al muro su cui avevo scelto i punti d’immersione, tutti a profondità diverse ed entro un raggio di io chilometri dalla base Dumont D’Urville. Sapevamo che la temperatura dell’acqua sarebbe stata di -1,8 °C (l’acqua salata rimane liquida anche a temperature inferiori al punto di congelamento dell’acqua dolce). Senza mute saremmo morti in meno di io minuti, ma grazie al nostro equipaggiamento possiamo restare immersi fino a cinque ore.
La preparazione a ogni immersione richiede quasi altrettanto tempo. Se non possiamo sfruttare i fori lasciati dalle foche di Weddell e dai loro infaticabili denti, dobbiamo scavare un buco nel ghiaccio con una perforatrice. La nostra maggiore paura è di perdere l’orientamento e restare intrappolati sotto la banchisa, perciò fissiamo un cavo giallo luminescente sopra il foro e ce lo trasciniamo dietro, srotolandolo, durante l’immersione. Per tornare ci basta seguirlo a ritroso.
Le nostre mute stagne sono composte di quattro strati: una tuta termica sopra alla quale ne indossiamo un’altra riscaldata elettricamente, un sottomuta in pile e, infine, la muta vera e propria costituita da uno strato esterno di oltre un centimetro di neoprene impermeabile.
Il tutto completato da un doppio cappuccio, guanti impermeabili con fodere riscaldanti, pinne e 16 chili di piombi. Abbiamo anche due batterie per alimentare il sistema di riscaldamento, un rebreather con ricircolo dell’anidride carbonica (per aumentare la durata delle immersioni), bombole di riserva e, infine, la mia attrezzatura fotografica. Per indossare l’attrezzatura impieghiamo circa un’ora con l’aiuto del medico Emmanuel Bianche.
Una volta pronti, abbiamo addosso circa 90 chili ciascuno. Muoversi è un’impresa, nuotare è quasi impossibile. Il freddo anestetizza rapidamente i pochi centimetri di pelle scoperta delle guance e penetra gradualmente nelle mute e nei guanti, diventando sempre più acuto. A fine immersione, durante la decompressione, non sappiamo più che fare per distrarci dal dolore.
Quando, infine, esco o vengo tirato fuori dal gelido oceano, resto prostrato sul ghiaccio, con il cervello troppo intorpidito per pensare di togliermi l’attrezzatura, la pelle indurita e raggrinzita, le labbra, le mani e i piedi gonfi e intirizziti. Poi, mentre il mio corpo si riscalda e il sangue riprende a scorrere, il dolore raggiunge l’apice, così intenso da farmi rimpiangere i momenti in cui avevo le estremità ancora congelate. Dopo quattro settimane ho perso la sensibilità delle dita dei piedi anche quando sto al caldo. Solo sette mesi dopo il mio ritorno in Europa i miei nervi danneggiati hanno ripreso a funzionare.
PERCHÉ SOPPORTIAMO tutto questo? Innanzitutto per la qualità della luce, che manderebbe in visibilio qualsiasi fotografo. All’inizio della primavera, al termine della lunga notte polare, il microscopico plancton non ha ancora iniziato a fiorire e a intorbidire l’acqua; non essendoci particelle che diffondano la luce, il mare è incredibilmente limpido sotto la banchisa. La luce che penetra dalle fessure o dai fori scavati dalle foche crea un effetto simile a quello delle luci dei lampioni, gettando un tenue chiarore sul paesaggio sommerso.
E che paesaggio! Nell’Antartide orientale vivono solo poche specie: foche, pinguini e altri uccelli, e non esistono mammiferi terrestri. Si potrebbe pensare che anche il fondo marino sia un deserto; invece è un giardino lussureggiante dalle origini antichissime. La vita marina dell’Antartide è rimasta isolata dal resto del pianeta per decine di milioni di anni, da quando il continente si è separato dagli altri ed è stato invaso dai ghiacci. Da allora, la possente Corrente Circumpolare Antartica, che scorre da ovest a est attorno all’Antartide, ha creato una barriera termica che impedisce alle specie che abitano questo mare di disperdersi. Il lungo isolamento ha permesso a un’incredibile varietà di specie uniche al mondo di evolversi e colonizzare il fondo marino.
A profondità comprese tra i 9 e i 15 metri, una foresta di kelp con fronde lunghe più di 3 metri dà vita a un paesaggio severo e imponente. Più in basso incontriamo stelle marine giganti di 38 centimetri di diametro, più grandi della maggior parte di quelle che vivono nei mari tropicali. Poi troviamo gli enormi ragni di mare; altrove questi artropodi sono rari e minuscoli, quasi invisibili a occhio nudo. Qui, come nel Mar Glaciale Artico, possono superare i 30 centimetri.
Sotto i 50 metri la luce è così tenue da non permettere la vita del kelp e di altri vegetali. Il fondo è ricoperto da uno spesso strato di piumosi idroidi (animali coloniali affini ai coralli) e da migliaia di pettini (molluschi simili a capesante). I pettini sono larghi 10 centimetri ma possono avere 40 anni e più; tutto cresce lentamente in Antartide. Ci sono anche crinoidi, parenti stretti delle stelle di mare, che catturano particelle di cibo vaganti con una ventina di braccia piumate. Tra questi si aggirano isopodi giganti simili a coleotteri.
A 70 metri, il limite delle nostre immersioni, la biodiversità aumenta ancora. Vediamo gorgonie, molluschi, coralli molli, spugne, piccoli pesci, tutto così colorato e abbondante da ricordare i reef tropicali. Gli invertebrati sessili, in particolare, sono enormi. Perfettamente adattati a un ambiente stabile, questi animali simili a piante crescono lentamente ma apparentemente senza limiti, a patto che niente li disturbi. Non possiamo fare a meno di domandarci come reagiranno ai cambiamenti climatici che stanno riscaldando il loro mondo.
Risalendo verso la superficie, la biodiversità diminuisce. Le acque basse sono un ambiente meno stabile; gli iceberg alla deriva e il ghiaccio marino arano il fondo, e il congelamento e la fusione stagionale degli strati più superficiali, che sottraggono acqua dolce al mare per poi restituirla, provocano drastici cambiamenti nella salinità. Ma c’è comunque molto da vedere: le microalghe che popolano la volta di ghiaccio la trasformano in un vistoso arcobaleno arancione, giallo e verde. Vista da sotto, la banchisa assomiglia più a un caotico labirinto con strati di ghiaccio posti a livelli diversi, attraverso i quali nuotiamo lentamente e con grande cautela.
Un altro giorno. Gentil richiama la mia attenzione verso una distesa di minuscoli anemoni traslucidi appesi alla banchisa. La loro base penetra per alcuni centimetri nel ghiaccio, duro come pietra, e i loro tentacoli, illuminati dal sole e ondeggianti nella corrente, sono sottili e scintillanti. Non ho mai incontrato nulla di simile in tutte le mie ricerche; sono quasi ipnotici.
Anche i ricercatori della base francese, osservando le nostre foto, dicono di non aver mai visto quegli anemoni del ghiaccio. All’inizio siamo molto eccitati, convinti di aver scoperto una nuova specie. Più tardi scopriamo che dei colleghi americani hanno descritto quegli organismi due anni prima basandosi su foto e campioni prelevati da un Rov, un veicolo da ricerca comandato a distanza. Restiamo un po’ delusi, ma siamo comunque orgogliosi di aver visto quelle creature così delicate dal vivo, con i nostri occhi.
Le acque sotto il ghiaccio antartico sono un po’ come il Monte Everest: magiche, ma così ostili che bisogna essere assolutamente certi di volerci andare prima di partire. Non sono ammessi ripensamenti; non si può simulare una passione del genere. Il prezzo da pagare è troppo alto. Tuttavia, è proprio questo che rende così straordinarie le immagini che si scattano qui sotto, che rende così indimenticabile l’esperienza di averle scattate e aver visto di persona questo luogo.
Dopo 36 giorni abbiamo l’impressione di aver appena iniziato a sondare questa immensità. La spedizione è così eccitante, il lavoro così impegnativo e faticoso, il sonno di ogni notte così profondo che la mente sembra aver trasformato quei giorni in un arco temporale senza soluzione di continuità. I nostri arti sono perennemente congelati, ma dentro di noi siamo in continuo fermento.
Una delle ultime immersioni mi rimane particolarmente cara, non tanto per ciò che ho visto, ma per la località in sé. Quando ero ancora in Francia, guardando la cartina di Dumont D’Urville, mi ero chiesto: “Dove, in questo secolo e su questa Terra, si può essere veramente soli? Dove si può vedere quello che nessuno ha visto prima?”. Sulla mappa segnai un punto, Norsel Rock, una minuscola isola a il chilometri dalla base francese che, d’inverno, è completamente ricoperta dai ghiacci.
Quando la raggiungiamo in elicottero, Norsel è circondata dalle onde, un pinnacolo di roccia che sporge da acque profonde 180 metri. La sua cima è ancora imbiancata dal ghiaccio. Una volta atterrati ci troviamo circondati dal mare e da iceberg giganti. Siamo consapevoli del privilegio di immergerci dove nessuno si è mai immerso.
L’estate è vicina e la giornata è tiepida, quasi mite, al limite dello zero. Ma l’acqua è sempre a -1,8 °C. Bianche, il nostro medico, fa partire il cronometro: abbiamo a disposizione tre ore e 40 minuti. Entriamo in acqua, per un altro viaggio in questo nuovo mondo.