Corriere della Sera, 5 luglio 2017
La fine dei blog?
Ha vent’anni, ma non sta tanto bene. Anzi, in certi settori è già materiale d’archivio, prodotto storico, argomento per il dibattito accademico su come evolve la comunicazione. Soppiantato dai social network e dalle notifiche sui telefonini, dalla fretta (nostra) e dalla richiesta di brevità (sempre nostra). E chi se lo sarebbe mai immaginato, il 18 luglio 1997, quando Dave Winer sviluppò il software che consentiva di creare un proprio blog. O quando cinque mesi (e cinque giorni) dopo l’americano Jorn Barger aprì quello che viene definito il primo del genere – RobotWisdom – per raccontare della sua passione: la caccia.
Il diario-sfogatoio digitale – che ha causato qualche disastro, ma ha fatto conoscere al mondo diversi talenti – ha subìto un altro colpo. Il Wall Street Journal ha chiuso lunedì otto dei suoi blog più seguiti. Spazi che si occupavano degli argomenti più disparati: dall’economia cinese alla società indiana, dall’arte allo spettacolo, dai numeri allo sport. Spazi diventati nel tempo punti di riferimenti per i lettori appassionati di settori di nicchia o interessati a capire l’evoluzione di una certa parte di mondo.
La mossa fa parte del progetto «WSJ 2020», avviato nell’ottobre 2016, che mira a ripulire il sito di diversi blog e segue a mesi di distanza la decisione del rivale New York Times di smettere di aggiornare «City Room», il blog creato nel 2007.
Dopo un quinquennio di successo – a cavallo tra il primo e il secondo mandato di George W. Bush – i blog sembrano aver lentamente imboccato il viale del tramonto. «Mantenere un blog personale è diventato un’impresa e i giovani non vogliono averci nulla a che fare visto che ci sono altre piattaforme più interessanti», ha scritto Mel Campbell sul Guardian. Ecco allora la (lenta) migrazione verso Facebook e Twitter prima, quindi Snapchat e Instagram poi. O verso forme di blogging più immediate (Tumblr) o più «sofisticate» (Medium).
Una statistica dei blog non esiste e rischia pure di essere fuorviante. Perché al netto di quelli ancora aggiornati, ce ne sono milioni visibili i cui post più recenti risalgono a mesi o anni fa. E i blogger famosi che fine hanno fatto? «Quelli che hanno avuto più successo ora guidano delle imprese editoriali come Vox (Ezra Klein, ndr ) o lavorano per le testate generaliste», fa il bilancio Jeet Heer su New Republic. «I conservatori sono confluiti in Breitbart.com, Andrew Sullivan è una rockstar invecchiata che se ne sta in disparte tranne qualche apparizione sul N ew York Magazine. Per non parlare di tutti quegli altri blogger che adesso fanno i podcast (file audio diffusi via Internet, ndr ) o inventano le Gif», le immagini animate che si ripetono all’infinito e hanno tanto successo. Ma solo per qualche ora. Giusto il tempo di affacciarsi sul web.