La Stampa, 5 luglio 2017
Istituzioni e tribunale interno. Così governa la ’ndrangheta
Colpo al cuore della ’ndrangheta. È qui, in quel fazzoletto di terra che va dall’Aspromonte fino al Mar Jonio, la testa pensante, l’organo direttivo della più potente organizzazione criminale del mondo. Ieri oltre mille carabinieri hanno eseguito i 116 fermi (due persone sono ancora latitanti) disposti dalla Dda di Reggio Calabria. Dalle prime luci dell’alba hanno stretto d’assedio i 21 Paesi del Mandamento jonico. Un territorio saldamente in mano alle cosche. Appalti, fondi per l’agricoltura, elezioni, addirittura anche l’assegnazione delle case popolari, tutto passava per le mani dei capibastoni. Un continuo braccio di ferro tra Stato e antistato. Così le ditte riconducibili agli uomini dei clan erano riusciti a infiltrarsi nei lavori per la realizzazione del nuovo Tribunale di Locri. Ancora peggio, le cosche riuscivano a guadagnare anche sui beni che gli venivano confiscati. È il caso dei lavori di ristrutturazione della villa sequestrata ai Cataldo di Locri e trasformata in un ostello della Gioventù. «I fratelli Cataldo – è scritto nel fermo – avevano ricevuto dall’impresa aggiudicatrice dei lavori per la realizzazione dell’Ostello della Gioventù una somma tra gli ottanta e i centomila euro come “pizzo” dovuto ai referenti mafiosi della zona».
Non c’era appalto o bando pubblico in cui le cosche non siano riuscite a metterci le mani. La nuova ferrovia ionica, le fogne, le strade, il centro di solidarietà Santa Marta della Diocesi Vescovile, anche il liceo artistico sequestrato alcuni mesi perché a rischio crollo, ovunque la ’ndrangheta si è intascata i soldi pubblici. E quando non riusciva direttamente a entrare nell’affare, toccava agli imprenditori sfamare gli appetiti degli affiliati. Il boss Giuseppe Pelle, intercettato, spiega come funzionava il sistema: «Tu sai, no, ma lui già lo sa compà. Che lui se non ci lascia il lavoro a noi, lui il lavoro non lo fa …». E ancora: «Vai, prendi il cemento dove ti diciamo noi, fai quello che devi fare dove ti diciamo noi. Altrimenti ce lo lasci e ce lo gestiamo noi». E per chi osava ribellarsi il prezzo da pagare era altissimo: «Lo leghiamo là, – uno va a prendere i soldi e lo aspettiamo là. Pagano la trascuratezza ventimila euro ciascuno … quaranta! … Se passa aprile lo acchiappiamo nel capannone, uno lo teniamo là e all’altro gli diciamo: “Vai a prendere i soldi e paga”».
L’indagine ha svelato poi come la ’ndrangheta della Locride avesse mantenuto il controllo anche delle campagne. In particolare, è emerso il coinvolgimento di esponenti delle famiglie mafiose di Platì nell’indebita percezione di contributi comunitari all’agricoltura, relativi al periodo 2009-2013.
L’ultima parte della maxi inchiesta è dedicata all’apparato giurisdizionale della ’ndrangheta diviso in tre livelli: il Consiglio Locale, un Consiglio direttivo generale (costituito da almeno 5 locali) e la Provincia. Un vero e proprio tribunale delle cosche dove vengono giudicati gli affiliati che si sono macchiati di «colpe», «trascuranze» o «sbagli». E alla fine del «processo» arriva la sentenza non appellabile e che prevede anche la pena di morte.
Amaro il commento del procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho: «Nel 2017 assistiamo a forme di schiavizzazione e di controllo del territorio tali che diventa persino difficile credere che possano essere attuati». Per il comandante del Ros, il generale Giuseppe Governale, «la ’ndrangheta ha finora goduto di lunghi periodi di tranquillità, ma il fatto che abbiamo fermato il 98% dei destinatari del provvedimento di fermo, vuol dire che lo Stato ha cominciato a macinare importanti risultati».